Quando, verso le 20.30 di lunedì, Michael Avenatti è stato rilasciato dietro il pagamento di una cauzione di 300 mila dollari, è andato dritto verso i giornalisti in attesa e ha rilasciato una dichiarazione, anticipando che non avrebbe accettato domande. In otto ore, lui, l’ex avvocato di Stormy Daniels, la porno star con la quale il presidente Donald Trump avrebbe fatto sesso provando poi a comprare il suo silenzio, tramite il suo uomo di fiducia, Michael Cohen, è passato dall’informazione, via Twitter, di una conferenza stampa per annunciare un grosso scandalo che coinvolgeva la Nike, agli arresti con l’accusa di tentata estorsione, proprio ai danni del colosso dello sport. Avenatti, in sintesi, avrebbe minacciato la Nike di rivelare informazioni, ricevute da un suo cliente, estremamente dannose per la compagnia, se non avesse ricevuto somme importanti di denaro (fra i 15 e i 25 milioni di dollari). Nella stessa giornata, altre pessime notizie gli sono state comunicate dalla California, dove altri giudici lo accusano di aver usato denaro di un cliente per pagare i suoi debiti e di aver ottenuto un prestito di 4 milioni da una banca dietro presentazione di dichiarazioni dei redditi falsate.
Eppure, davanti ai quei microfoni, Michael Avenatti, dopo una giornata che avrebbe steso chiunque, era sé stesso: elegante, curato, senza un accenno di stanchezza o di nervosismo, con gli occhi mobili a cercare quelli di tutti i giornalisti e assicurarsi la loro attenzione. E sicuro di sé, sicuro che la giustizia farà il suo corso e che le accuse a suo carico cadranno perché considerate completamente infondate.
Seduta, a casa, lo ascolto e penso che, se anche io fossi innocente, e lui lo è fino a prova contraria, ma, allo stesso tempo, le prove a suo carico sembrano essere dannatamente serie, non riuscirei, trovandomi nei suoi panni, a rimanere cosi solidamente granitica. Lo ascolto e quasi mi aspetto che tiri fuori il suo, una volta popolarissimo, #basta.
Come giornalista, la mia intervista, unica per l’Italia, con lui resterà per sempre uno dei miei momenti professionali più significativi. Quando sei una freelance, sei sempre affamata di notizie o di storie che non sono quelle che coprono le agenzie o i colleghi dei quotidiani. Io poi amo intervistare e provare a scavare nella vita di chi mi sta di fronte, raccontando ciò che mi viene detto, ma anche ciò che vedo, che percepisco.
Per questo una mattina dello scorso giugno, lo ricordo perfettamente, feci, come faccio sempre, la liste delle mie “interviste impossibili” e tra quei dieci nomi misi anche Michael Avenatti. In quei giorni lui era continuamente in televisione, parlava di correre per la presidenza degli Stati Uniti, veniva invitato come speaker agli appuntamenti elettorali in vista delle elezioni di medio termine e co-conduceva “The view” uno degli show più popolari del mattino. Insomma, capirete perché la consideravo “un’intervista impossibile”. Per questo, quando Mr Avenatti rispose, personalmente come suo solito, alla mia mail, chiedendo informazioni sul giornale dove sarebbe stata eventualmente pubblicata l’intervista, io continuai a guardare il mio telefono per avere la conferma di essere ben sveglia. Ovviamente le cose non furono poi semplicissime: ci fu un lungo scoraggiante silenzio e poi una mia nuova mail in cui, chissà come, trovai le parole che evidentemente erano quelle perfette. “Let’s do it”, mi rispose ancora. Poi di nuovo un lungo silenzio, ma ormai avevo la sua parola. E, infatti, dopo un paio di telefonate, durante le quali fui stupita dalla sua estrema cortesia, dalla sua calma e dal suo ridere alle mie battute (che dovrei sempre evitare di fare, lo so), l’appuntamento fu fissato, a New York, nel giorno forse più caldo di un’estate torrida.
Come tutte le persone ansiose, al mattino alle 6 gli mandai una mail per confermargli il nostro appuntamento, mi rispose dopo 10 minuti scusandosi perché aveva bisogno di spostare l’appuntamento di dieci minuti. Questo in un mondo in cui ho intervistato persone vagamente note, che sono arrivate con un’ora di ritardo e malapena hanno chiesto scusa.
Tutto il resto è il ricordo di due ore che resteranno, per me, uno dei vantaggi della mia professione che mi ha messo e mi mette spesso di fronte a esseri umani complessi, deboli, forti, geniali con una storia da raccontare che diventerà, inevitabilmente, parte di una storia più ampia e duratura.
Se questo dovesse essere l’epilogo della storia di Michael J Avenatti, nipote di un immigrato italiano, arrivato dal Piemonte per seguire il suo sogno americano, sarebbe triste, ma non sarebbe il primo né l’ultimo caso di “stella cadente” nel firmamento della politica e sicuramente Donald Trump, non accusato dal rapporto di Mueller, ma neppure assolto, sta gustando il sapore di due giorni tutti a suo vantaggio. Eppure, comunque andrà, un segno Avenatti lo avrà lasciato: Michael Cohen è il prossimo incubo per il presidente e a chiamarlo in causa è stato proprio lui, il difensore della donna che testardamente continua la sua battaglia, Stormy Daniels.