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February 28, 2019
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L’America al bivio tra Michael Cohen il pentito e lo stato-mafia di Don Trump

La testimonianza pubblica dell'ex avvocaticchio di Donald Trump al Congresso rivela sul presidente quello che si sospettava già ma che potrebbe non bastare

Stefano VaccarabyStefano Vaccara
Time: 4 mins read

Cosa ci rimane addosso dopo aver seguito per ore la pubblica testimonianza-interrogatorio al Congresso dell’ex avvocaticchio di Trump, Michael Cohen? Sicuramente, a chi scrive,  la precisa, anzi certa sensazione che ormai si è giunti al bivio che porta al  futuro destino delle istituzioni della democrazia americana. Se la presidenza di Donald Trump miracolosamente dovesse sopravvivere a quello che ormai da oltre due anni sta emergendo sulla campagna elettorale del 2015-16,  e potrà indisturbata continuare a governare per poi partecipare alle elezioni del 2020, vorrà dire che il popolo degli Stati Uniti ha deciso di accettare un paese dove la verità non ha più conseguenze, ma diventa l’optional da mettere da parte quando non favorisce il capo. Un mondo in cui non conteranno più i fatti per l’accertamento della giustizia, ma solo una realtà virtuale creata da ciò che serve in quel momento a chi gestisce il potere, un mondo fake in cui credere solo a ciò che occorre agli interessi del capo di tutti i capi.

Siamo al bivio in cui l’elezione di Trump ha trascinato la democrazia americana, quello che preso in una direzione porta dritti allo Stato-Mafia ad immagine e somiglianza proprio della Russia di Putin, o se preso nell’altra, alla svolta verso la salvezza del ritorno ai suoi valori fondanti, incentrati sul rispetto dei fatti, della verità che rafforza i suoi principi,  la “rule of law” in cui si fonda la democrazia di stampo jeffersoniano.

Ricordiamo: Trump da presidente ha ripetuto, fino a diventare una cantilena sul twitter,  mentre deve subire l’inchiesta per i sospetti che il regime russo di Putin lo avesse aiutato a vincere le elezioni,  che non c’era “collusion”, che non c’era alcun deal con i russi prima, durante e dopo la sua campagna elettorale. Poi si viene a sapere che Trump avrebbe voluto costruire un grattacielo al centro di Mosca. Ora, secondo la testimonianza di Cohen, addirittura sarebbe stata tutta la famiglia Trump che conta a mobilitarsi per raggiungere quell’obiettivo, e che la campagna elettorale serviva in realtà a preparare il big deal. Ma poi arrivò la sorpresa, la vittoria elettorale, spinta anche dalle email rubate dagli hacker russi alla campagna di Hillary Clinton e diffuse da Wikileaks….

Questo dice Cohen, che da avvocaticchio sbroglia-garbugli non serviva Trump solo nel pagare le porno star per non far loro rivelare alla vigilia delle elezioni i vizietti del capo,  ma dice che assisteva ed era quindi cosciente (e se ne pente amaramente) delle relazioni pericolose con i russi. Durante la sua deposizione al Congresso, ad un certo punto Cohen dice di non poter approfondire certe questioni di cui sa perché oggetto ancora delle indagini dei procuratori di Manhattan che, ricordiamo, hanno in mano molti dei documenti di Trump dopo che a Cohen perquisirono l’ufficio al momento dell’arresto…

Ma serve più all’America per decidere il suo destino accertare certi fatti, sapere la verità? Chi la spunterà tra chi li vuole i fatti e chi invece dimostra di essere allergico alla verità pur di mantenere lo status quo alla Casa Bianca? Ancora non è chiaro, vista la strenua difesa mostrata dai repubblicani al Congresso pur di fare scudo a Trump. Già, gli eletti di quello che una volta era il Grand Old Party di Lincoln, ormai dimostrano di essere diventati dei legislatori “in fuga dalla verità!”, come li ha appellati mercoledì un loro collega democratico.

Kim e Trump: due facce di una stessa medaglia autoritaria?

Trump era in Vietnam per cercare “un deal” con il dittatore nord coreano Kim Yong-Un, mentre lo spettacolo-tragedia di Cohen andava in scena a Washington. Solo una coincidenza che potrebbe essere di auspicio a chi si augura che da oggi sia iniziato proprio il “Vietnam” di Trump.  Anche ad Hanoi, Trump ha mostrato la faccia da regime intimidatorio, come se volesse imitare quello di Kim, almeno per come sono stati trattati alcuni giornalisti americani che cercavano di chiedere al presidente una reazione sulla testimonianza in corso di Cohen. Trump sembra di essere a proprio agio solo quando deve discutere di affari con figure autoritarie e spietate, si chiamino Kim o Vladimir.

Donald Trump, il presidente della nazione più potente della terra, è nella descrizione fatta da Cohen un “razzista, truffatore, imbroglione” che continuamente mente e si aspetta che chi lavori per lui continui a mentire per servire solo gli interessi del boss che sono gli unici che contano. Questo ci conferma l’ex “consigliere”, tutti tratti caratteriali di Trump che erano ormai emersi e che lo stesso Don, con atteggiamento più adatto ad un boss mafioso che a un futuro presidente degli Stati Uniti, aveva  rivelato candidamente: “potrei sparare a qualcuno sulla Quinta Avenue, e mi voteranno lo stesso”.

La vignetta apparsa sull’account twitter dell’Economist: Cohen dice: “Lui è un imbroglione e truffatore”. Trump e Kim rispondono allo stesso momento: “Come ti permetti a parlare così del mio amico”

Ha fatto un certo effetto vedere il faccione spaventato di Cohen, quando gli chiedevano se avesse paura di quello che il suo ex boss avrebbe potuto fargli. Già, il “pentito” sembrava cosciente che Trump prima o poi gliela farà pagare.

Serve sapere a questa nazione che Trump sapesse in anticipo che Wikileaks avrebbe pubblicato le e-mail di Hillary Clinton? Serve sapere che Trump ha spudoratamente mentito sui suoi tentativi di investimento immobiliari in Russia? Serve sapere che Trump, anche da presidente, mente e continuerà a mentire e violentare la verità quando questa aiuterebbe gli interessi degli Stati Uniti, ma non i suoi interessi personali?

Vedremo quali saranno le prossime mosse di chi è stato eletto al Congresso dopo che sia il procuratore speciale Robert Mueller che  i procuratori del distretto sud di Manhattan, avranno concluso l’accertamento dei fatti che sono riusciti a far emergere. E lì si capirà finalmente quale strada abbia deciso di intraprendere l’America, ormai messa difronte al bivio che porta alla conferma dello stato di diritto o dello stato dei don.

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Stefano Vaccara

Stefano Vaccara

Sono nato e cresciuto in Sicilia, la chiave di tutto secondo un romantico tedesco. Infanzia rincorrendo un pallone dai Salesiani e liceo a Palermo, laurea a Siena, master a Boston. L'incontro col giornalismo avviene in America, per Il Giornale di Montanelli, poi tanti anni ad America Oggi e il mio weekly USItalia. Vivo a New York con la mia famiglia americana e dal Palazzo di Vetro ho raccontato l’ONU per Radio Radicale. Amo insegnare: prima downtown, alla New School, ora nel Bronx, al Lehman College della CUNY. Alle verità comode non ci credo e così ho scritto Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination (Enigma Books 2013 e 2015). Ho fondato e dirigo La VOCE di New York, convinto che la chiave di tutto sia l’incontro fra "liberty & beauty" e con cui ho vinto il Premio Amerigo 2018. I’m Sicilian, born in Mazara del Vallo and raised in Palermo. I studied history in Siena and went to graduate school at Boston University. While in school, I started to write for Il Giornale di Montanelli. I then got a full-time job for America Oggi and moved to New York City. My dream was to create a totally independent Italian paper in New York to be read all over the world: I finally founded La VOCE di New York. In 2018 I won the "Amerigo Award". I’m a journalist, but I’m also a teacher. I love both. I cover the United Nations, and I correspond from the UN for Radio Radicale in Rome. I teach Media Studies and also a course on the Mafia, not Hollywood style but the real one, at Lehman College, CUNY. I don't believe in "comfortable truth" and so I wrote the book "Carlos Marcello: The Man Behind the JFK Assassination" (Enigma Books 2013 e 2015). I love cooking for my family. My favorite dish: spaghetti con le vongole.

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