Entriamo nelle redazioni come stagisti. Siamo sfruttati, costretti a subire ogni tipo di sfruttamento. I colleghi che sono qui come noi da più anni diventano dei leccapiedi. E per cosa? Per portarsi a casa una sostituzione e cercare di restare aggrappati con le unghie e con i denti. E a noi va bene così visto che nessuno si ribella. Finché c’è la fila fuori, anche solo per prendere il nostro posto, le cose non cambieranno”. Chi parla vuole rimanere anonimo, lo stage è ancora in corso, ma l’importanza della testata giornalistica che lo ospita è direttamente proporzionale alla frustrazione.
Frustrazione. Questa seconda puntata del nostro viaggio sulle cause dello stato di sofferenza del giornalismo italiano, ha questo sentimento come filo conduttore. Ex editori, neolaureati, studenti delle scuole di giornalismo avrebbero voluto rimanere editori, diventare giornalisti, almeno non essere costretti a fare altro per vivere.
Nel deserto desolante dell’informazione italiana si incontrano diverse specie vegetali che, nonostante l’aridità, cercano di sopravvivere.
Il lichene
Vivono nel sottobosco e si nutrono di umidità. Avrebbero voluto diventare giornalisti, far crescere prima il fusto e poi allargarsi con dei bei rami ma non ci sono state le possibilità. Il bosco era fitto e la luce era sempre e solo degli altri.
“Mi chiamo Paolo Patruno, ho 32 anni e sono vice direttore generale di Clitravi, l’associazione europea che rappresenta le industrie della carne e dei salumi. Sono anche senior advisor di Federalimentare e docente universitario. Collaboro con varie testate e periodici quali Agrisole de Il Sole 24 ore e Nutrizione33. Qualche anno fa però volevo fare solo il giornalista. Scrivevo sia di politica che di cronaca per il Gazzettino prima e per il Corriere del Veneto poi, parallelamente ai miei studi in legge. Ho cambiato mestiere per scelta ma anche per necessità. Probabilmente se il giornalismo mi avesse permesso di vivere, mi sarei focalizzato sulla carriera giornalistica. Le collaborazioni che avevo, tuttavia, non erano sufficienti a pagarmi le vacanze. Figuriamoci a vivere. E questo è un peccato. Sia chiaro, amo il mio lavoro e sono orgoglioso di quello che ho fatto ma ho dovuto abituarmi a non leggere più articoli a firma mia”.

“Mi chiamo Cristina, ho 31 anni e mi sono laureata in giornalismo nel 2009 all’Università di Verona. A dicembre 2006 ho conseguito il Diploma di laurea in Scienze della Comunicazione a Padova. Dal 2006 sono stata stagista nella redazione di Massa de Il Tirreno e nella segreteria dell’Ufficio Stampa della Regione del Veneto. Poi sono iniziate le collaborazioni e il lavoro in un’agenzia di comunicazione di Treviso”. La laurea è stata utile ma non indispensabile: “Mi è servita abbastanza per quanto riguarda la redazione di testi e articoli ma mi è servita di più a livello culturale perché l’aver toccato materie diverse tra cui anche economia, sociologia, psicologia, storia contemporanea e marketing mi ha consentito di avere un occhio critico ed un metodo di lavoro e studio che mi porto sempre dietro e si arricchisce ad ogni esperienza lavorativa, ad ogni articolo. L’università apre la mente anche se purtroppo tecnicamente ci sono grosse lacune che ti fanno trovare impreparato quando approcci il mondo del lavoro. Dieci anni fa, in più non si sapeva a cosa avrebbero portato i new media, come sarebbero evoluti e quindi adesso c’è la necessità di aggiornarsi per conto proprio se si vuole rimanere al passo coi tempi”.
La fine degli anni dell’università Cristina li ricorda ancora bene: “Mi sono laureata nel momento in cui è esplosa la crisi economica e quell’estate mi sono adattata a lavorare come barista in un’area di servizio. Poi a ottobre 2009 sono entrata in un’agenzia di comunicazione che voleva avviare un servizio di ufficio stampa per i propri clienti. Lì sono rimasta fino a scadenza contratto e man mano che passavano i mesi ho iniziato ad ampliare le mie conoscenze e competenze: copywriting, contatti con i clienti, piccoli piani di comunicazione, interfacciarsi con i colleghi che si occupavano di grafica e web, fino al web marketing e social media marketing dopo alcuni mesi dal rientro dalla maternità. È stata una palestra di lavoro. Poi da febbraio 2014 non sono più riuscita a trovare lavoro nel mio settore; tanti colloqui e altrettante porte chiuse con il sentore che fossero le parole “sono mamma di un bambino” a tagliarmi fuori. Da maggio ad ottobre 2015 ho lavorato come hostess in aeroporto per necessità e finalmente da qualche settimana mi occupo di marketing per un’azienda con un contratto a termine. Fortunatamente in questo momento non mi sento di dire di aver cambiato lavoro perché ciò che faccio rientrava nelle mie idee, nei miei sogni. Dover scegliere di adattarsi ad altri lavori da una parte mi ha rattristato, perché si vive sempre con la speranza di tornare a fare ciò che si ama di più, ma dall’altra mi ha arricchito dal punto di vista umano. Mi piace lavorare per cui da ogni lavoro cerco di trarre qualcosa di buono. I periodi più pesanti da vivere sono stati quelli della disoccupazione: diciotto mesi in totale. E là sì ci sono stati giorni in cui mi sono sentita persa, inutile e con poche speranze”.
La pianta carnivora
Fanno i giornalisti perché non potrebbero fare nulla altro al mondo. “In tutti questi anni di precarietà, quando ti va bene, e di disoccupazione, quando davvero non c’è nessuna opportunità, in tanti mi hanno chiesto cosa aspettassi a cambiare radicalmente la mia vita. La mia risposta è stata sempre la stessa: non puoi andare contro te stesso, contro la tua vera natura, contro la tua passione, contro la tua vocazione. Come si sentirebbe un medico chirurgo se d’un tratto si ritrovasse a vendere jeans in un centro commerciale? La sua missione è salvare vite. La mia informare”. Luca Maddalena non ha dubbi. Giornalista professionista, 31 anni, originario della provincia di Foggia, per approdare alla professione ha intrapreso la strada della scuola di giornalismo: una pianta carnivora democratica, che mastica soldi indistintamente, senza considerare attitudini e vocazioni.

“Mi ero messo in testa di diventare giornalista grazie all’esperienza sul campo, quella quotidiana, quella che realmente ti fornisce gli attrezzi del mestiere giorno dopo giorno. Ma ottenere un praticantato era, ed è, una fortuna per pochi eletti. Così dopo un proficuo stage curriculare in una nota emittente televisiva dell’Emilia Romagna, provo con tutto me stesso a strappare un contratto. Quel contratto mi avrebbe permesso di diventare pubblicista dopo due anni di pubblicazioni e nella migliore delle ipotesi, un praticante che avrebbe ottenuto la possibilità di dare l’esame finale per l’abilitazione professionale. Ma tutto ciò non avvenne. E la motivazione è semplice: in Italia se scegli la strada per diventare pubblicista, nella maggior parte dei casi, ti trovi di fronte ad un contratto fittizio. Nessuno ti paga a pezzo, nessuno ti versa i contributi necessari per ottenere il patentino. Quei contributi devi versarteli tu, ammesso che tu non sia un “figlio di” che ha le porte praticamente spalancate davanti. E ci ho riflettuto su: a cosa mi sarebbe servito versarmi i contributi per ottenere un tesserino che poi, vista la situazione reale del giornalismo italiano, non mi avrebbe permesso di entrare a far parte di una vera redazione, con tutti i benefici del caso? Si trattava e si tratta di un controsenso: pagare di tasca propria qualcosa che non ti avrebbe permesso di arrivare da nessuna parte. Così ho scelto di riporre il mio sogno in un cassetto, ripromettendomi di riaprirlo quando magari le cose sarebbero andate in modo diverso. Ma la storia economica e finanziaria del nostro Paese negli ultimi dieci anni non mi ha dato di certo una mano. Se prima potevo avere una piccola speranza su un milione di no, in quegli anni anche quella speranza si era affievolita. Morta. E così dopo la laurea l’unica alternativa, più o meno seria, che avevo davanti era il master in giornalismo. Non sono mai stato un fan dei corsi di specializzazione a numero chiuso e per giunta a pagamento. Ma al cuor non si comanda, e quando quel cuore batte il risultato non può essere che scontato”.
Così, Luca arriva a Napoli, nella scuola del Suor Orsola Benincasa, la prima scuola di giornalismo del Sud Italia. “Sono stati due anni fondamentali nel mio percorso, perché mi hanno consentito di apprendere e di affinare nuove conoscenze e tecniche. Mai avrei pensato di fare il caporedattore di un giornale di carta stampata e di coordinare il lavoro redazionale. Eppure grazie alla scuola è stato possibile. Ma come ogni cosa, anche le scuole di giornalismo hanno un costo. E che costo! In Italia si oscilla dai 12 mila ai 20 mila euro. Nel mio caso specifico, sono volati via 17 mila euro, solo di retta universitaria. E non c’è giorno che non ringrazi i miei per avermelo permesso. Ma non ne vado fiero: perché sbarrare la strada a tanti ragazzi, magari spinti dalla mia stessa passione o forse anche di più, soltanto a causa di un costo quasi proibitivo? Non è forse l’ennesimo controsenso di questa professione? In più mi sono ritrovato con tanta gente abbiente che non aveva minimamente idea di cosa significasse “giornalismo”. E che magari era dentro solo perché sorretta da una famiglia che poteva permettersi certe licenze economiche. È questa la cosa che non ho mai digerito e continuo a non digerire delle scuole. Perché rubare i soldi a chi non farà mai questo lavoro? Ritorniamo al minimo comune denominatore: la passione. Se non ce l’hai non puoi inventarti giornalista. E allora perché le scuole permettono tutto questo? Perché lo fa l’Ordine?”
Dopo aver lavorato per Mediaset, Tg5, Rai, RaiNews24 e Agon Channel, Luca continua a fare colloqui. “Il telefono squilla inaspettatamente e c’è qualcuno che vuole conoscermi. È il direttore responsabile di una nota emittente televisiva nazionale. Incredulo accetto e mi presento al colloquio dopo aver percorso più di 700 chilometri. Quella telefonata, secondo me, era arrivata grazie ad una lettera di sfogo indirizzata proprio al direttore. Facile immaginarsi cosa abbia scritto in quella lettera. Un grido disperato di un ragazzo che sogna e che non chiede pietà ma solo ascolto. Si conclude tutto con una chiacchierata che non avrà un seguito. In quei pochi minuti ho avuto l’impressione di avere di fronte qualcuno che non avesse minimamente letto nulla di me. Ecco il rammarico più grande è proprio questo: aver disatteso, esattamente come altre cento, mille volte, il mio grido, la possibilità di ascoltarmi realmente. La speranza è che prima o poi, nel bene e nel male, qualcuno dia per davvero ascolto a chi, come me, crede che fare dignitosamente questo mestiere sia ancora possibile. Tante, troppe volte, il giornalismo italiano di oggi si sofferma solo sui potenti. Veicola solo le informazioni dei più grandi, dei più forti per imporre una linea più o meno condivisa di vivere ed abitare il mondo. Mi piace pensare che il mondo, in realtà non sia solo questo. E ringrazio di cuore chi, nel proprio piccolo, si sforza con tenacia di raccontare anche un mondo diverso, dove i protagonisti sono anche i più poveri, gli esclusi, tutti coloro che non hanno voce in capitolo”.
La pianta grassa
Otto giorni di lavoro. Ore e ore davanti al computer. Zero tutele legali. Telefonate in Svizzera. Quei giorni si indagava sui conti all’estero dei soliti furbetti italioti, dalle tasche piene e la coscienza vuota. Pochi euro di compenso per un’inchiesta costata rischio e fatica. “Se ci hai messo tanto tempo, non è colpa nostra: il compenso è sempre a pezzo“. E che compenso, vien da dire. Fu quel giorno, dopo anni di esperienza e un giornale fallito alle spalle, che decisi di invertire la rotta. “Tengo famiglia” pensai col cuore in mano. Cambiare lavoro, l’unica soluzione. E vai con la generazione “ufficio stampa”. Un lavoro bello, ma profondamente diverso. Al servizio di pochi, non per molti. Tanti, tantissimi, quelli che ogni giorno scelgono la strada più sicura. Bravi colleghi, brillanti professionisti, costretti a buttare la penna, sostituendola con telefono e cartella stampa. Un danno per la categoria, ma soprattutto per la collettività. Già, perché il vero giornalismo rimane un lusso per pochi. Del resto per sbarcare il lunario, l’importante è produrre: c’è poco spazio per l’approfondimento, l’inchiesta, la qualità. E vai col copia-incolla. In questo magro contesto, anche i tutelati sono a rischio: lo stato dell’editoria è ormai alibi per i tagli al personale. Occhio a quel che scrivi dunque. E la verità spesso arretra. È proprio questa la barbarie contro la democrazia dell’informazione”.

Sono parole di Silvia Zingaropoli, giornalista professionista, 39 anni, dieci passati tra carta stampata e giornalismo online. Reduce dall’esperienza editoriale del free-press EPolis, oggi si occupa di comunicazione politica e non. La sua esperienza potrebbe essere paragonata a quella di una pianta grassa: vive anche senz’acqua.
Negli ultimi anni sono incappata accidentalmente nelle dolorose vicende del PD, in primis affiancando Fabrizio [ Barca, ndr] nel faticosissimo Viaggio in Italia, durato sei mesi su e giù per il Belpaese. Ho coordinato la comunicazione di #MappailPD, la mappatura circolo per circolo del partito, dopo le vicende di Mafia Capitale che hanno investito Roma come uno tsunami. Da libera professionista ora continuo la mia attività di addetto stampa e consulente per la comunicazione per diverse realtà. Diciamo che mi sono reinventata un mestiere dopo aver capito che ormai di giornalismo in Italia non si vive, purtroppo. Oggi comunque il mio lavoro mi piace molto. Ma se ti pagano 20 euro netti al pezzo (se va bene…) non puoi perdere più di due ore su quel pezzo, se vuoi guadagnare la giornata e provare a scriverne un altro. E in due ore non può uscire un prodotto di qualità. Per questo credo che ciò limiti l’informazione e, dunque, la democrazia. Un cittadino male informato, viene privato di un suo diritto fondamentale. Un cittadino male informato, è un cittadino cieco”.
Il cipresso
Sulla via verso il cimitero dell’informazione un cipresso resiste alle intemperie. Rami piccoli e chioma compatta, produce ghiande, fa ombra alle vecchine che vanno a trovare i defunti, crea un contorno riconoscibile. È un albero crossmediale che, nonostante l’esperienza, si trova ad affrontare tristi storie di quotidiana amministrazione, come un colloquio lampo all’Unità.
Mariano Sabatini lo descrive come il colloquio più breve della storia: si siede, chiede una collaborazione come critico televisivo, la sua specialità, gli dicono che le collaborazioni sono a titolo gratuito. Si alza, stringe la mano del direttore e inforca l’uscita: “Non ho mai lavorato gratis, cosa che trovo immorale, ma nella mia vita non sono nemmeno mai stato assunto. Ho avuto la fortuna di essere stato chiamato da Luciano Rispoli del Tappeto Volante per Telemontecarlo. Il mio contratto di collaborazione con l’emittente è durato dal 1993 al 2000. Poi, dopo altri lavori in produzioni televisive, ho abbandonato il mondo del piccolo schermo. È un mondo ansiogeno, con una buona dose di cortigianeria. Ho sempre collaborato con RAI, varie emittenti radio e televisive. Ma la mia principale attività è stata scrivere libri. Ne ho scritti sei”.

Mentre in questi giorni l’editore Salani sta pubblicando il suo primo romanzo L’inganno dell’Ippocastano, Sabatini racconta come il segreto per sopravvivere nel viale del cimitero sia essere crossmediali: “Ho fatto radio, TV, il critico televisivo. Ma con la notorietà non si mangia. Il problema è che oggi la visibilità è diventata merce di scambio al posto del lavoro. Oggi gli editori fanno balenare questa chimera della fama come il corrispettivo economico che non c’è. In sostanza non ti pagano e se sei a partita IVA farsi pagare è diventato un vero inferno. Negli anni ho perso 30.000 euro di compensi mai ricevuti, fatture non pagate. Essere un freelance negli altri paesi è una scelta vincente. Qui no”.
Sopravviverò puntando sull’eclettismo, di questo sono certo. È una chiave vincente. È stata una mia scelta quella di non essere assunto in una redazione, non volevo passare la mia vita al desk, tagliare i pezzi degli altri e titolare, non mi interessa, io voglio fare il giornalista. Attorno a questo mestiere comunque c’è tutta una mitologia che va ridimensionata”.
Eppure Mariano Sabatini è tutto tranne che frustrato: “Se mi chiedi se sono felice ti dico di sì. Quello dello scrittore-giornalista è un mestiere che mi piace e che continuerò a fare con entusiasmo, nonostante tutto. Magari è un lavoro che non consiglierò alle mie figlie perché è come fare l’attore. O meglio, lo possono fare a patto che abbiano una passione bruciante. È un mestiere difficilissimo. Se hai una passione bruciante invece prima o poi ce la devi fare”.
L’edera
L’edera si arrampica sugli alberi, se ne frega della mancanza di luce, della poca acqua. Ottimo substrato possono essere anche quei rami secchi che restano attaccati stantii su un modello di giornalismo che non esiste più.
L’edera è il brand storytelling e ne parliamo con Giampaolo Colletti. Si definisce “storyteller digitale, appassionato di nuove professioni e comunità in rete”. E chi meglio del giornalista ha bisogno che gli venga ritagliato su misura un travestimento da nuova professione? Oltre ad aver co-fondato l’osservatorio sull’enterprise generated content dell’Università Bocconi, scrive per i principali quotidiani e ha pubblicato quattro libri.

Gli chiediamo se intravede i pericoli del brand storytelling, che rischia di spostare il giornalismo dal cane da guardia del potere allo scribacchino dell’azienda. “In realtà il brand journalism oggi diventa un elemento di quel vasto campo di brand storytelling che si studia soprattutto nel mondo anglosassone, ma che anche in Italia si legge sempre più spesso sui social e nel dibattito mediale. I rischi di questa virata sono sempre presenti, perché di fatto la narrazione che si fa è comunque di parte: la storia viene valorizzata mettendo in luce alcuni aspetti e in ombra altri. E il rischio c’è. Sta al buonsenso del brand journalist e storyteller riuscire a creare una narrazione credibile, veritiera, attenta ai dettagli, emozionale. Mai dimenticando l’ossessione per la verità, che poi (anche in rete) ha a che fare con la credibilità. Non si tratta di puro giornalismo ma di tecniche di narrazione applicate alla valorizzazione delle storie di impresa, siano esse interne o esterne all’organizzazione stessa. Sotto questo aspetto certamente si tratta di una qualche forma di pubblicità, ma anche di una forma di narrazione volta a esplicitare storie con gli strumenti multimediali e che possano essere valorizzate e condivise sui social network e lette in mobilità: storie quindi appassionanti, coinvolgenti. Ecco allora che a mio avviso ha ragione Richard Edelman, a capo dell’omonimo colosso mondiale di comunicazione e PR, quando ha dichiarato al Financial Times che ‘ogni società ha capito che può diventare una media company’”.
Nel mondo del giornalismo odierno i titoli “acchiappa-clic” lo fanno arrabbiare: “Cercano, anche in cattiva fede, di portare visite e accessi al proprio mulino, incrementando quindi il valore della piattaforma per il mercato pubblicitario. Ma penso anche che quei temi, quella trattazione, quell’ancoraggio alla non-notizia siano oggi parte di una strategia di coinvolgimento di un lettore-utente sempre più distratto, sottoposto a mille stimoli e con una bassa soglia di attenzione. È vero, a pagare il prezzo più caro della crisi del giornalismo sono le giovani generazioni, non inserite in modo stabile in questo mercato del lavoro. Però è anche vero che ciascuno può sperimentare e arrivare a ricreare sin da giovani modelli di narrazione: insomma, può far sentire la propria voce, può distinguersi con un blog, una testata, una web tv, un canale di comunicazione sui social network. Se la barriera di ingresso è più alta oggi per il mondo del giornalismo, è anche vero che la possibilità di crearsi una propria agorà è maggiore. E tutto questo in passato ero precluso. Certamente bisogna lavorare per differenza, posizionandosi su nicchie e ambiti ancora non coperti con sguardi originali e con una serialità di offerta essenziale. Ecco, l’elemento discriminate non è solo esserci online, ma esserci con sistematicità, una presenza che di fatto implica anche un ragionamento editoriale”.
È uno spiraglio di ottimismo: “Io credo davvero che oggi il giornalismo possa mostrare nuove facce, ibridazioni inaspettate. Poi se non vogliamo chiamarlo così, possiamo trovare altre definizioni, ma di fatto i numeri parlano chiaro: per ogni giornalista ci sono 4,6 comunicatori. Soltanto dieci anni fa il rapporto era di uno ogni 3,2”.
E poi ci sono gli studenti dell’università, alla facoltà di Comunicazione e Filosofia di Bologna, alla IULM di Milano e all’Istituto per la formazione al giornalismo di Urbino: tutte sedi dove Colletti insegna. “Quando parlo di storytelling gli studenti mi guardano spesso disorientati: i modelli di giornalismo ai quali siamo abituati hanno permeato anche il loro immaginario. Ma oggi un brand storyteller ha enormi possibilità per farsi strada: non parlo solo di sostenibilità della professione ma proprio della possibilità di sperimentare, accompagnando imprese grandi e piccole, pubblica amministrazione e ONG di varia natura verso una narrazione della propria realtà, e di riflesso del proprio pubblico. D’altronde anche il futurologo danese Rolf Jensen ha pronosticato che “da qui al 2020 assisteremo allo sviluppo di una fase costituita dalla società del sogno: vivremo in una cultura del consumo che racconterà delle storie attraverso i prodotti che acquistiamo”. Ai suoi studenti lo dice sempre: “in futuro serviranno più giornalisti nelle aziende che nelle redazioni.”
La quercia
Giornalista di Panorama, “l’unico posto dove si fa ancora il vero giornalismo d’inchiesta”, l’estate scorsa ha ideato, coordinato e condotto un programma in prima serata in RAI. Una quercia alta e con i rami ben distesi piazzati al sole, il sogno di qualsiasi giornalista italiano medio ma Carlo Puca racconta come raccomandazioni o spintarelle dalla politica non servano a nulla. “Il giornalismo sta vivendo un momento no perché con la crisi economica e la conseguente perdita di introiti pubblicitari, il nodo è venuto al pettine in tutta la sua drammaticità. Gli editori hanno razionalizzato le spese, puntando troppo sull’esternalizzazione. Possono farlo perché, a fronte di redazioni sempre più asciutte, utilizzano il bacino sterminato dei freelance, sotto e mal pagati proprio perché sono troppi e troppo disponibili. Un altro problema, e mi spiace dirlo, è che i giornalisti della vecchia guardia hanno goduto di privilegi finiti sulle spalle delle nuove generazioni. Ma questo non è soltanto un dramma dell’informazione, è dell’intero Paese. Ne consegue che il ricambio generazionale è quasi nullo. Ogni tanto spunta, per fortuna, qualche nuova firma, ma rappresenta una goccia nel mare. E quando una professione non si arricchisce nei volti e nelle persone, significa che non sa accogliere il nuovo che avanza. Sento puzza di stantio, al giornalismo italiano manca freschezza”.

Gli abbiamo chiesto del suo percorso da quercia, di come si fa e di cosa serve. “Non credo alla fortuna e alle raccomandazioni, con queste si dura poco. Credo però alla fatica e al caso. Bisogna sempre lavorare tanto e bene. E quando il caso ti mette davanti a una possibilità, devi sfruttarla al meglio, dare più del massimo. Vengo dalla provincia profonda, ero fuori da qualsiasi giro che contasse qualcosa. Tutto è cambiato nel 1995, quando mi sono infiltrato con una telecamera nascosta in un combattimento clandestino tra pittbull organizzato dalla camorra. Così sono riuscito ad aprire una collaborazione con la RAI. Tuttavia, sono stato precario per molti anni, fino al 2003, quando ho dovuto prendere una decisione fondamentale: continuare in TV oppure andare a lavorare a Il Riformista, il quotidiano appena aperto da Antonio Polito. Ho scelto Il Riformista e così mi sono fatto conoscere nel giro della carta stampata. Nel 2006 Pietro Calabrese, arrivato alla direzione di Panorama, mi ha chiesto di seguirlo. Sono qui da allora e sono anche molto felice, il settimanale resta il miglior posto dove poter produrre inchieste e reportage, materie peraltro care al mio attuale direttore, Giorgio Mulè. La conduzione TV è una conseguenza, una sorta di “ritorno al futuro”. Sono nato precario RAI, cresciuto professionalmente nella carta stampata, rientrato in una TV che cercava idee nuove. Ho proposto io il mio programma pensando di farlo condurre a qualcun altro. Ludovico Di Meo, vicedirettore di RAI 1 che sa tutto di televisione, mi ha detto: ‘Perché qualcun altro e non tu?’. Confesso: è stato un invito gratificante”.
Consigli per tutti
In tanti vorrebbero fare il percorso di Carlo Puca quindi è tempo dei consigli, da dare ad un quindicenne aspirante giornalista, ad un neolaureato in giornalismo e ad un quarantacinquenne freelance che non riesce a vivere dignitosamente.
“Al quindicenne dico che con il giornalismo non ci si arricchisce. È un mestiere che si fa esclusivamente per passione. Bisogna essere molto convinti di intraprendere questa strada, sapendo che uno su mille che la fa e che ci si può facilmente ritrovare a rimpiangere la scelta compiuta. Questo è un discorso che tre anni fa ho rivolto anche a mia sorella, ora ha 24 anni: ha cambiato idea, scegliendo un’altra strada. Al neolaureato consiglio di ultraspecializzarsi in un settore ben preciso. Ora come ora, le figure ancora un po’ richieste sono i giornalisti economici, quelli tecnologici e i deskisti. Gli consiglierei, anche, di leggere molto: vedo troppi giovani giornalisti che pretenderebbero di scrivere senza leggere. Quanto al potenziale quarantacinquenne, sarebbe un mio coetaneo. La sola idea mi colpisce molto. Personalmente, per come sono fatto, dovessi trovarmi nella stessa situazione, cambierei professione. Alla mia età non avrei la forza psicologica di combattere quotidianamente per lavorare. Ammiro, e pure molto, chi affronta un percorso così duro. Ma io non ce la farei”.
È tempo di sincerità: detto fuori dai denti, conoscenze e spinta della politica non saranno una condizione sine qua non per fare i giornalisti? Le conoscenze sono quasi tutto nel nostro mestiere. Poi, però, bisogna intendersi sul valore della parola. Esempio: se Indro Montanelli conosce Marco Travaglio, lo individua come giovane talento, lo assume e lo valorizza fa una cosa brutta, sporca e cattiva? Secondo me no. Semmai oggi la questione è che pure un Montanelli avrebbe difficoltà ad assumere un Travaglio, non ci sono soldi. Quanto alla politica, penso che nell’immaginario collettivo il suo peso sia sopravvalutato. Nella contemporaneità conta molto di più il potere economico: industriali, manager, azionisti dei grandi network. Anche qui, però, bisogna intendersi. Se uno ottiene un posto per la spinta di un politico o di un industriale, non sta facendo il giornalista bensì il servo poiché ha perso in partenza la sua libertà intellettuale. Insomma, ha soltanto ottenuto uno stipendio, non un lavoro, almeno per come lo intendo io”.
Ma nonostante tutto, c’è ancora speranza per giornalismo e informazione e quella speranza di chiama qualità. “Siamo sommersi da notizie superficiali mentre manca l’approfondimento – conclude Puca – Perciò, credo che andremo verso una maggiore qualità e una minore quantità. Avremo meno giornalisti però, appunto, qualificatissimi, competenti e con un buon seguito personale di lettori. Per poterli pagare almeno discretamente, si risparmierà sulla pletora di colleghi rimanenti: verranno espulsi dal mercato senza pietà alcuna. Se oggi ce la fa uno su mille, tra dieci anni la proporzione sarà uno su tremila. E qui torno a implorare il quindicenne aspirante giornalista: pensaci bene prima di imbarcarti su questa nave in tempesta, il viaggio potrà essere straordinario ma anche rivelarsi assai funesto…”.