Il mestiere di giornalista regolarmente assunto e pagato da una redazione con un fisso mensile per reperire e raccontare le notizie, rischia di diventare una professione dall’aura mitica, affascinante ma relegata al passato. Una sorta di arrotino, lustrascarpe, lavandaia: c’erano e funzionavano. Ora non più. E raccontare il marcio che si nasconde dietro al sistema dell’informazione italiana all’alba del 2016 è un po’ come rivelare che dietro le quinte dello spettacolo piove dal soffitto: chi lavora nel teatro lo sa bene, ci si inzuppa i piedi tutti i giorni, ma gli spettatori applaudono allo scuro di tutto.
“Con La Voce di New York sto preparando uno speciale a puntate su quanto sia difficile vivere di giornalismo in Italia”, dico ad un collega che mi appresto ad intervistare sul tema. “Difficile? Impossibile vorrai dire”, mi risponde. E allora perché le scuole di giornalismo sono sempre piene zeppe di iscritti? E come mai proprio gli stessi iscritti arrivano poi a rinunciare alla professione? Lontano dal voler essere un dibattito autoreferenziale, il nostro viaggio proverà a raccontare la difficoltà di accesso dei giovani e il mancato ricambio generazionale, come problema non soltanto occupazionale ma concreta minaccia per la democrazia. Questo è il primo episodio di un viaggio a puntate nel giornalismo italiano ai tempi della crisi, tempi di informazione online e di assuefazione al peggio.
“Mamma, voglio fare il giornalista. Mi fai un bonifico?”
È il 2011 quando la ricerca dell’Ordine dei Giornalisti Smascheriamo gli editori mette nero su bianco i compensi dei collaboratori dei quotidiani italiani. E se 30 anni fa un articolo pubblicato su La Stampa veniva pagato anche l’equivalente di 450 euro, ora la situazione è del tutto cambiata. In Emilia Romagna, Il Resto del Carlino paga 2 euro e 50 per articoli fino agli 855 caratteri, 6 euro per pezzi fino a 5.150 battute, 9 euro per articoli più lunghi. La regola vale fino alla soglia dei 70 pezzi, se si supera questo numero la retribuzione è fissata a 2,50 euro. Non va meglio all’Ansa dove ogni lancio viene pagato 5 euro indipendentemente da argomento, lunghezza e tempi necessari. In ogni realtà si lavora con mezzi propri, telefono, auto e benzina per recarsi sul luogo dei fatti. Gli articoli vengono remunerati solo se pubblicati. Imbarazzanti le realtà di quotidiani web come il laziale Newnotizie.it dove 25 news settimanali vengono ricompensate con 1 euro e 50 ma solo al raggiungimento dei mille click a notizia. La collaborazione comprende anche 12 news a settimana senza retribuzione. Il quotidiano La Provincia di Varese prevede 3 euro fino alle 600 battute, 12 euro fino alle 1.100, 15 euro fino alle 1.700, 20 euro per articoli più lunghi. La Nuova Sardegna, del gruppo editoriale L’Espresso, paga 2,58 euro qualunque sia la lunghezza. Al toscano Il Tirreno, dello stesso gruppo editoriale, si possono racimolare dai 67 ai 153 euro al mese. E via così per tante altre testate, compresa La Repubblica con i suoi 20 euro ad articolo. Un panorama ben commentato dal titolo di un post comparso su Lanotiziagiornale.it: “Mamma, voglio fare il giornalista. Mi fai un bonifico? Devo comprare il pane”.
“Mamma, continua coi bonifici! Dice Renzi che non è sfruttamento”
È il 29 dicembre 2015 quando su RAI1 va in onda la tradizionale conferenza stampa di fine anno con il premier Matteo Renzi, moderata dal presidente dell’Ordine dei Giornalisti, Enzo Iacopino. Il tema delle basse retribuzioni di molti giornalisti viene messo in campo dal presidente: “C’è una schiavitù che non solo è tollerata ma è codificata in contratti: 4.920 euro lordi l’anno, questo è quello che vale il lavoro giornalistico nel civile Nordest (nelle testate Finegil, Gruppo Espresso/Repubblica). 4.920 euro per un lavoro senza limiti né di orario, né di quantità di articoli, tasse, spese, oneri previdenziali, foto e video compresi”. Iacopino la definisce “un’emergenza democratica”. Poi la richiesta al Governo “di non dare denari pubblici agli editori che non paghino dignitosamente i giornalisti”.
Ma Renzi accusa il colpo e lo rimbalza: “Non credo che ci sia schiavitù o barbarie in Italia. Lo dico con estremo rispetto ma aggiungo che la mia posizione sull’Ordine dei giornalisti è per l’abolizione”. Renzi riporta l’attenzione su altre situazioni drammatiche, come il rapporto 2015 di Reporter senza frontiere. “Una barbarie più grande non annulla un’altra barbarie” replica Iacopino ribadendo che 4.900 euro all’anno pagati ai precari sono schiavitù. Renzi conclude augurandosi “un anno all’insegna della libertà di informazione che è un grande valore che l’Italia ha e sa mantenere” e la frase fa spuntare un sorriso amaro in quanti, al di là della retorica, conoscono la situazione della libertà di stampa che vede l’Italia 73ª nella classifica mondiale, un paese solo “parzialmente libero”.
Ma non basta. L’Italia tra il 1 maggio e il 30 settembre 2015 ha guadagnato un triste primato, come registrato dall’Index on censorship’s mapping media freedom, progetto gestito in collaborazione con la Federazione europea dei giornalisti e Reporter senza frontiere, oltre ad essere parzialmente finanziato dalla Commissione Europea. È il secondo paese in Europa per minacce ai giornalisti con 38 incidenti tra molestie, intimidazioni, restrizioni di ogni tipo, secondo solo alla Turchia.
“Mamma, ho scritto a Renzi”
“Caro Renzi, lo sfruttamento dei precari esiste e danneggia l’informazione”. Non solo esistono ma sono anche comprensibilmente arrabbiati. L’esercito dei freelance schiavizzati non resta a guardare e di fronte alle esternazioni del premier risponde con una raccolta firme accompagnata da una lettera aperta. “Ci rivolgiamo a lei, da freelance attivi nella FNSI– il sindacato dei giornalisti italiani – e nella sua Commissione nazionale lavoro autonomo, per esprimerle sconcerto per il tono liquidatorio da lei usato (…) I dati ufficiali dimostrano che i lavoratori autonomi e atipici sono oggi il 62,6% dei giornalisti attivi, e sono in rapida crescita. Spesso con redditi medi da 11.000 euro lordi l’anno, e nella metà dei casi di circa 5.000. Con spese a proprio carico e con una netta disparità di diritti, tutele e forza di contrattazione rispetto ai colleghi dipendenti. E queste sono condizioni di oggettiva debolezza, di ricatto occupazionale e sfruttamento del lavoro, che ledono la libertà e la qualità dell’informazione. Dovere deontologico dei giornalisti è di informare correttamente, senza subire condizionamenti. Ma per farlo serve anche non essere costantemente oggetto di ricatti economici ed occupazionali. Che è ciò che accade a gran parte degli autonomi, che contribuiscono significativamente, da collaboratori esterni — senza tutele, sicurezze e quasi sempre senza retribuzioni adeguate — al sistema informazione di questo Paese. E non stiamo pensando solo alle grandi testate, ma anche a quelle minori, alle realtà periferiche, a quelle a rischio come nelle terre di mafia, dove l’informazione riguarda la vita quotidiana dei cittadini. Condizioni di lavoro, queste, che non vengono riequilibrate dai 20 euro lordi ad articolo, o dai 6 euro lordi per un lancio d’agenzia o di un articolo su web”.
Alla luce di uno scenario poco rassicurante al premier chiedono contributi solo agli editori che dimostrino di pagare equamente e con regolarità i giornalisti, superamento dei contratti atipici, stessi diritti e tutele per il lavoro giornalistico e autonomo, una revisione dell’equo compenso giornalistico per i lavoratori autonomi, la proroga dell’esistenza della Commissione per l’equo compenso, in scadenza nei prossimi mesi, l’emanazione da parte dal Ministero della Giustizia delle tariffe per la liquidazione giudiziale dei compensi giornalistici e l’obbligo di firma di tutti gli articoli, per tutte le testate registrate anche online, al fine di agevolare i controlli e far emergere il lavoro nero o non retribuito. In sostanza, una riforma vera e propria.
Mamma l’Ordine! (Atipicità di casa nostra)
La presenza di un Ordine per poter esercitare la professione è un’atipicità sullo scenario europeo. Uno studio dell’Istituto Bruno Leoni evidenzia come negli altri Paesi europei l’attività giornalistica venga concepita secondo logiche di mercato. “In Austria, Danimarca, Germania e Gran Bretagna e Irlanda il giornalismo non è considerato una professione alla stessa stregua di avvocati, medici e notai. In Belgio, Francia, Norvegia e Portogallo l’attività è affidata alle organizzazioni sindacali. L’attribuzione del titolo avviene attraverso commissioni miste in cui sono presenti editori e giornalisti (Francia) oppure solo giornalisti (Norvegia e Portogallo)”. Se in Francia per diventare giornalisti serve un praticantato in redazione, senza Ordine professionale, in Germania manca proprio la regolamentazione statale: “I criteri di idoneità per lo svolgimento del lavoro a carattere giornalistico vengono definiti sostanzialmente dagli editori delle testate”. Basta fare i giornalisti per entrare nelle associazioni private di categoria anglosassoni, una sorta di ibrido tra sindacati e club. Il loro ruolo? Svolgere attività di promozione e tirocinio. “La proposta – conclude lo studio – è che anche l’Italia apra la professione a tutti coloro che la svolgono di fatto. Il lungo dibattito sulla riforma dell’Ordine, dibattito mai arrivato a nulla, dimostra l’impossibilità di riformarlo”.
Ma se la situazione in Europa è questa, come mai allora in Italia l’Ordine c’è? Quali fattori giustificano la sua presenza? L’abbiamo chiesto a Serena Sileoni, vice direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni. “L’idea che la professione del giornalista potesse essere legittimamente esercitata solo previa iscrizione a un ordine risale al 1925, sotto, quindi, il fascismo, quando la legge sull’organizzazione dell’attività giornalistica previde l’istituzione di un Ordine, che poi in realtà non fu mai creato, ma venne sostituito nel 1928 con l’Albo professionale dei giornalisti in ogni sindacato regionale fascista. La legge del 1965 ha sostituito l’idea dell’Albo con l’Ordine, cambiando anche, di fatto e diritto, le finalità di controllo (da controllo di regime a controllo di serietà professionale), ma è innegabile che l’origine ordinistica della professione giornalistica sia al cuore del regime autoritario che abbiamo avuto. Questo può spiegare anche l’anomalia rispetto ai paesi europei, eccetto il Portogallo dove una disciplina simile a quella italiana fu introdotta nel periodo salazariano”.
Al di là di come l’Ordine operi nello specifico, la sua presenza non è quindi un buon segno visto che “l’esistenza dell’ordine è correlata all’esistenza di un reato assurdo come l’esercizio abusivo della professione giornalistica. In teoria, tutti hanno diritto di esprimersi, e in effetti (e per fortuna) tutti possono scrivere un articolo, ma non tutti possono dire di essere giornalista. Per poterlo dichiarare, occorre essere iscritti a un ordine. Perché? Perché altrimenti si rischia l’esercizio abusivo. Nonostante la libertà di espressione sia, come amano dire i costituzionalisti, pietra angolare della nostra costituzione”.

“Al di là di questa tautologia — conclude Serena Sileoni — non vedo altri motivi che possano seriamente prendersi in considerazione per derogare a un altro diritto costituzionale, quello della libertà di associazione, che comporta anche la libertà di non aderire ad alcuna associazione. La serietà, professionalità e reputazione dei giornalisti come singoli e come categoria possono infatti essere garantiti in molti altri modi. Non a caso le norme che compongono la deontologia, in senso ampio, e il trattamento di dati di terzi sono ormai estese anche a chi occasionalmente scrive, pur senza essere giornalista. Non occorre essere giornalisti per dover rispettare il diritto di cronaca”.
“Mamma, aggiungi qualche posto a tavola”
L’Assenza dell’Ordine dei giornalisti non è l’unico aspetto che ci differenzia dagli altri paesi. Solo da noi: “quattro freelance su dieci sono a reddito zero”. A confermarlo è la fotografia più recente della professione giornalistica realizzata da LSDI – Libertà di stampa diritto all’informazione che, con INPGI, CASAGIT, Ordine e FNSI, basandosi su dati 2014, ha evidenziato come aumenti sempre più il lavoro autonomo (al 64,6 per cento) e diminuisca costantemente quello dipendente (35,4 per cento). Il rapporto mostra come le testate tradizionali continuino a perdere peso, come alle donne spetti il 76,5 per cento della retribuzione maschile, come il 31,9 per cento dei lavoratori dipendenti che svolgono anche lavoro autonomo non superi complessivamente i 30.000 euro lordi l’anno. Un quadro tutt’altro che roseo con la disoccupazione quasi raddoppiata in 12 anni.
“Il 2014 è stato un altro anno di profondo malessere – scrive Pino Rea, coordinatore di Lsdi (Libertà di stampa, diritto all’ informazione), nell’introduzione del documento – un anno che ha visto acutizzarsi la crisi della professione e dei suoi organismi e indebolirsi ulteriormente il ruolo di polarizzazione dei media tradizionali nel campo del lavoro subordinato”.
“I rapporti di lavoro in quotidiani, periodici e RAI, che nel 2000 rappresentavano il 76% del lavoro giornalistico dipendente, nel 2014 sono calati infatti al 59,5%. Mentre enti pubblici e privati e la pubblica amministrazione, che 15 anni fa contavano l’8,1% dei rapporti di lavoro subordinato, hanno raddoppiato il loro peso e rappresentano ora il 16,7% dei rapporti di lavoro”.
“I redditi medi da lavoro autonomo nel 2014 restavano al 17,9% di quelli del lavoro dipendente, 5,6 volte inferiori. I 4.888 subordinati con entrate sopra gli 80.000 euro annui hanno ricavato 2,3 volte di più dei 23.704 autonomi con reddito superiore a zero messi insieme. Circa 603 milioni di euro, contro 260 milioni. Nel campo del lavoro dipendente, quello che pesa concretamente è la diminuzione – a velocità sempre più preoccupante – dei rapporti di lavoro, con un meno 4,7% (era stato -4,1% nel 2013 rispetto al 2012), e quella (meno 3,7%) delle posizioni attive, cioè dei giornalisti attivi (che possono avere più rapporti di lavoro)”.
Dati che in futuro potrebbero andare pure peggio se si considera la situazione al 31 dicembre 2014, quando i rapporti di lavoro rilevati dall’Istituto erano 15.891, con una diminuzione di ben 1.043 unità rispetto a quelli registrati nella stessa giornata del 2013 (16.934).
“Si tratta di un dato molto severo che – ha spiegato il presidente dell’INPGI, Andrea Camporese nella sua relazione al bilancio consuntivo 2014 – trascina un’ulteriore diminuzione contributiva e dimostra che la fase recessiva del settore non può dirsi affatto conclusa. Certamente – ha aggiunto – una parte della passività deriva da processi di crisi incardinati negli anni precedenti, ma pensare che l’inversione del ciclo economico, di cui si intravedono i primi effetti, possa rappresentare la cura di tutti i mali sarebbe miope’’.
Unico dato positivo, secondo Camporese, è rappresentato dalle 250 nuove assunzioni registrate nel corso del 2014 sulla base degli sgravi contributivi disposti quattro anni fa dall’Istituto, che complessivamente (2011-2014) hanno portato comunque all’assunzione di 574 giornalisti: ma si tratta solo di un quarto rispetto al numero dei posti di lavoro persi complessivamente nel quadriennio”.
Allora come fare? Nello studio interviene Raffaele Lorusso, neosegretario generale della FNSI, che punta tutto sul nuovo contratto di lavoro: “Un contratto che – dice Lorusso – deve puntare sulla ripresa dell’occupazione, costruendo percorsi di inclusione dei troppi giornalisti precari che vengono quotidianamente sfruttati e ampliando il ventaglio di tutele, garanzie e welfare per gli autonomi. È bene capire che senza nuova occupazione e l’allargamento della base occupazionale – ha spiegato Lorusso intervenendo al Congresso dell’Associazione stampa di Puglia – siamo condannati all’estinzione. Occorre dunque ridurre le diseguaglianze e ampliare il perimetro del contratto. È al mondo dei Co.Co.Co. che dobbiamo guardare, individuando percorsi di inclusione contrattuale con l’accesso al welfare di INPGI1 e CASAGIT”. “Non c’è futuro senza un nuovo e pieno patto generazionale, che rimetta al centro la ripresa dell’occupazione”. Per Lorusso bisogna “puntare a prodotti di qualità declinati da professionisti ben remunerati e non sotto ricatto. Per far questo dovremo declinare la prestazione lavorativa su più piattaforme: le novità non vanno rifiutate a priori e non siamo favorevoli a battaglie di retroguardia”.
“Mamma dammi 100 lire che in America voglio andar”
I compensi di un freelance italiano sarebbero impensabili nel panorama del giornalismo anglosassone. Secondo il Bureau of Labor Statistics in America reporter e corrispondenti nel 2010 hanno ricevuto un salario medio di 43.640 dollari. La cifra viene suddivisa tra chi lavora per quotidiani e periodici con un salario medio di poco meno di 40.000 dollari e chi lavora in TV e radio con 51.410 dollari all’anno.
Va peggio per i colleghi inglesi. Secondo il National Council for the Training of Journalists lo stipendio medio per un giornalista di carta stampata è di 22,250 sterline. Un giornalista alle prime armi può guadagnare dalle 12.000 alle 15.000 sterline, dipende se si tratta di un giornale locale o regionale. Un giornalista con 5 anni di esperienza professionale può aspirare a 25.000 sterline annue. L’anzianità lavorativa è direttamente proporzionale alla paga: se si esercita come giornalisti da 10 anni si va dalle 35.000 alle 40.000 sterline annue. Più alti i compensi nei quotidiani nazionali accompagnati anche da diversi bonus a seconda dell’andamento del giornale.
“Mamma dammi 100 lire che in RAI voglio andar”
Se quattro freelance su dieci in Italia sono a reddito zero, diversa è la questione per gli assunti. Sintomatici i dati RAI: stando alla mappa dell’organico che la stessa azienda ha inviato al Ministero dell’Economia sui dati aggiornati a fine 2013, 303 dirigenti giornalisti guadagnerebbero tra i 120.000 e i 240.000 euro l’anno. Stipendi da 85.000 euro l’anno in media per i 688 redattori ordinari. E per quanto riguarda i giornalisti? Contratto a tempo indeterminato per 1.581 giornalisti, metà di loro con retribuzioni d’oro anche da 105.000 euro l’anno. Più costosi sarebbero invece gli inviati speciali, 64 in tutto, pagati 126.000 euro. I 150 vice caporedattori costerebbero all’azienda una cifra come 18 milioni totali. Oltre ai 262 dirigenti, dieci di loro dal valore di 240.000 euro annui, ci sono anche in RAI i precari. Sono circa 10.000, con contratti a tempo determinato, senza tutele e guadagnano da poche decine di migliaia di euro ad un massimo di 80.000 annui. Non mancano le eccezioni, ovvero precari che guadagnerebbero tra gli 80.000 e i 240.000 euro. In 31, fino al 2013, sfioravano i 310.000 euro. Complessivamente la RAI dà lavoro ad oltre 12.000 dipendenti e 10.000 collaboratori, con un costo di 905 milioni di euro.
“Mamma sei orgogliosa? Sono uno dei pochi”
Giornalisti sottopagati e sfruttati perché troppo numerosi? Rispetto alle esigenze del mercato dell’informazione italiana forse sì, ma non secondo le statistiche che confrontano l’Italia ad altri paesi. Con dati del 2001, 2007 e 2013 l’OCSE mette l’Italia penultima in classifica. Nei 29 Paesi dell’Ocse per i quali sono disponibili i dati, il numero di chi lavora nel settore della produzione di contenuti editoriali vede al primo posto la Gran Bretagna, dove gli operatori dei media sono l’1,18 per cento della forza lavoro, un dato in crescita rispetto al 2007. Secondo posto per la Svezia con l’1,15 per cento della forza lavoro. Undicesimi in classifica gli Stati Uniti. In Italia la percentuale è dello 0,42 per cento, un numero rimasto invariato tra il 2007 e il 2013. Ultimo il Messico.
“…Ma mamma, non è colpa mia”
È colpa della crisi. Possiamo permetterci di rispondere così solo se dentro alla parola “crisi”, economica e dei giornali, nascondiamo miriadi di aspetti: crollo del numero delle copie lette, carenze nella filiera distributiva dei quotidiani, la marginalità degli abbonamenti, le poche vendite digitali che non compensano la discesa libera del cartaceo. Tutti aspetti analizzati in profondità dagli specialisti di DataMediaHub che con 21 grafici sulla crisi dei giornali realizzati da Pier Luca Santoro e pubblicati sul trimestrale dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia, New Tabloid, spiegano cosa non va e perché. Un esempio su tutti? Il crollo degli introiti pubblicitari. Il mercato pubblicitario italiano dal 2008 al 2014 è andato in perdita su tutti i fronti per un meno 36,9 per cento totale. Meno 55,4 per cento in 6 anni per i quotidiani, meno 59,8 per cento per i periodici. Va meglio alla televisione dove il calo è “solo” del 27,6 per cento. Si avvicina la radio col meno 26,7 per cento. Il dato più ottimista arriva da Internet: meno 14,7 per cento dal 2008 al 2014 ma i numeri diventano positivi se analizzati nell’ultimo anno. Dal 2013 al 2014 infatti internet ha visto la luce in fondo al tunnel, registrando un più 2,1 per cento di pubblicità.

Troppo presto per cantar vittoria. Dati recenti ancora di DataMediaHub, in uno studio firmato dal giornalista Lelio Simi mostrano come i tre maggiori gruppi editoriali italiani, RCS, Gruppo Espresso e il Gruppo 24 ore, dal 2006 a settembre 2015 abbiano tagliato il 25 per cento dei dipendenti. Via dipendenti, via costo del lavoro: il dato aggregato per i tre gruppi vede 167 milioni di euro in meno da settembre 2006 allo stesso mese del 2015, ovvero un meno 27 per cento. Il dato positivo dell’ultimo anno anche qui c’è: il gruppo Sole 24 ore dal 2014 al 2015 è ritornato nuovamente ad assumere dopo anni, anche se solo di 10 unità.
Nel panorama nero del giornalismo italiano i nuovi arrotini, lavandaie e lustrascarpe non si arrendono a quella che potrebbe essere una parabola discendente: si lamentano tanto ma combattono di più e, come vedremo nella prossima puntata, alla domanda “come mai hai scelto di provare a fare questo mestiere” rispondono: “perché non potrei fare null’altro al mondo”. Con buona pace della mamma che dovrà continuare a fare bonifici.
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