Il pass stampa al Festival del giornalismo di Perugia, che nella cittadina umbra in questi giorni sta ospitando fino a domenica 4 maggio la creme de la creme del giornalismo italiano, non serve a nulla. Eppure ce l’hanno tutti: non reca alcun nome, non parla della testata per cui ti trovi al festival ma attesta che hai la punta di un piedino dentro all’olimpo del mondo del giornalismo italiano. E questo per tanti basta. Come in ogni olimpo che si rispetti non mancano gli dei, le grandi firme osannate che riempiono le 13 sale del meeting internazionale: da Beppe Severgnini a Daria Bignardi, da Peter Gomez a Giuseppe Cruciani fino a Marco Travaglio e Paolo Mieli.
L’età media supera i 30 anni, i più giovani sono i volontari che aiutano gli spettatori a fluire nelle salette spesso troppo piccole. I più anziani si trovano anche tra il pubblico e non solo tra i relatori, freelance da 22 anni che ogni anno tornano al festival per vedere cos’è cambiato. I piccoli scalpitano: agguerriti e armati di penna e blocchetto, quando non ipad e iphone, bloccano i portatori sani di fama ad un angolo, basta una dichiarazione, un cenno, un far sapere che anche tu esisti e che anche a te piacerebbe diventare un dio dell’olimpo. Ma il confine è marcato. Si risponde, gentilmente anche se non sempre, e si ripete che sì, la meritocrazia esiste anche in Italia ma uno su mille ce la fa.
Ai panel, con nomi anche illustri del giornalismo internazionale, non si scava mai troppo in profondità, si sta in un territorio comodo e condiviso tra principi della formazione per giornalisti, cosa ottiene più “like” nei social media, come districarsi nel mondo delle notizie on line. Qualche esperienza personale c’è, qualche giovane freelance che ha deciso di arrangiarsi con ottimi risultati anche, ma sono casi rari e ben circoscritti. C’è chi rimedia un colloquio con il Corriere, chi “sono venuto solo per fare public relations” quasi a confermare che per diventare un giornalista affermato in Italia tu debba conoscere qualcuno che conta. Per questo imbucarsi alla festa che Sofri dà a Perugia diventa una priorità, partecipare all’incontro sulla censura dei siti internet in Italia no.
Ma in tutto questo crogiolarsi di parole addosso, che scivolano come panna troppo squagliata in una torta comunque ben architettata, qualcosa che rimane c’è. Sono le parole di Margaret Sullivan public editor del New York Times che in apertura del suo incontro invita tutti a fare più domande possibili perché “spero di imparare da voi almeno tanto quanto voi imparerete da me”. Gli dei ci sono, gli hotel sono pieni, tra 200 panel, workshop, documentari e incontri non c’è tempo per annoiarsi. Certo, bisogna sceglierne al massimo due per ogni fascia oraria, c’è la fila da fare e si rischia di non entrare o sedersi per terra o rimanere a prendere appunti in piedi. Cosa manca? Chiaro, la libertà di stampa in Italia, trattata con cognizione di causa.
“Accetto una critica del genere solo da chi non conosce il programma delle edizioni precedenti di questo festival – replica l’organizzazione – Gli anni scorsi abbiamo parlato sempre di libertà di stampa”. “Ma l’Italia resta l’ultima in classifica tra i paesi occidentali – ripeto – E sì è vero, si è parlato di libertà di stampa in un incontro ad hoc organizzato durante la giornata mondiale della libertà. Ma Turchia, Messico ed Egitto hanno avuto la meglio, coprendo la realtà italiana. E invece il nostro grande rimpianto è la Cina – ribattono dall’organizzazione – Avremmo voluto parlare di cosa i giornalisti devono passare per informare in Oriente. Se non ci confrontiamo su tutto che festival siamo”.
Ma che giornalisti siamo se non abbiamo il coraggio di scavare sotto alla scorza di un sistema che si parla addosso, tracciando pochi orizzonti per possibili soluzioni? E se non ci confrontiamo su un’Italia che raccoglie il maggior numero di querele verso i giornalisti rispetto a qualsiasi altro paese democratico, che festival siamo? Il Festival del giornalismo italiano. Per l’appunto.