Negli anni settanta la società edile in cui lavorava mio zio era proprietaria di una vecchia palazzina nel pieno centro di Roma. Lo stabile, composto da quattro appartamenti, versava in stato di assoluto degrado e aveva bisogno di una completa ristrutturazione per poter infine essere venduto. L’acquirente era già lì che aspettava da un po’. Ma c’era un problema. In uno degli appartamenti c’erano ancora due vecchiette in affitto. Stavano lì da cinquant’anni e non se ne volevano andare, nonostante i notevoli incentivi economici offerti dalla proprietà per togliere il disturbo.
“Avemo sempre abitato qui. ‘Ndo annamo poi?”, rispondevano sempre le due anziane signore ai numerosi solleciti.
Il tempo passava, i proprietari erano sempre più arrabbiati e le donnine restavano lì, salde come rocce in mezzo alla tempesta. Così, nell’attesa, io chiesi allo zio se poteva prestarmi nel frattempo le chiavi del vecchio attico per starci un po’ con i miei amici e con la mia fidanzata dell’epoca, chi vuole capire capisca.
Avevo vent’anni e frequentavo l’università, un attico al centro, per quante precarie fossero le sue condizioni, era un sogno da non lasciarsi scappare.
E infatti non scappò.
“Va be’, te le presto ‘ste chiavi, ma intanto dura poco perché quelle vecchiette tra poco le mandiamo via.”, disse lo zio, non sapendo che quelle chiavi io le tenni per quasi quattro anni, tanto ci misero infatti le simpaticissime donnine a decidere di andarsene, dopo aver accettato una cifra enorme per lasciare e trasferirsi da parenti.
Il giorno seguente il rilascio delle agognate chiavi io, con un sorriso incredibile stampato sul viso, andai lì insieme ai miei amici, armato di vernici, pennelli, stucco e chiodi. Sistemammo in qualche modo le varie stanze e organizzammo il nostro favoloso piedaterre nel centro di Roma, tutto gratis. Pure la luce era gratis perché zio ci aveva concesso di attaccarsi a quella delle scale. Per il riscaldamento invece provvedemmo con delle stufette rimediate in giro. Furono anni strepitosi. La casetta in cima al mondo era per noi quella che fu per Gino Paoli nella celebre canzone “C’era una volta una gatta”.
Anche noi ci procurammo presto una gatta con tanto di macchia nera sul muso.
Ma la stellina che, come nel testo, “veniva vicina vicina”, invece stava già lì, bastava affacciarsi alla finestra e guardare in alto verso il cielo.
Da un balconcino, mediante una vecchia scala a pioli, si saliva sul tetto. Da lassù si poteva vedere tutta Roma, lo sguardo spaziava a 360° dal Palazzo del Quirinale a Piazza Venezia, dal Pantheon a San Pietro. Stesi sulle vecchie tegole del settecento ci crogiolavamo al sole, mentre il sole a forma di palla rossa tramontava all’orizzonte e uno stuolo di rondini pazzerelle piroettava nel cielo allestendo allegre e complicate fantasie che neanche Don Lurio e le gemelle Kessler, nei loro mitici anni di Studio Uno, sarebbero stati in grado di ripetere.
E nelle notti di luna, complici una chitarra e un fiasco di vino, restavamo tutti seduti lassù a guardare gli altri tetti di Roma e i fuochi d’artificio sparati a distanza durante le feste de’Noantri al di là del Tevere.
Ora c’è un artista che ha deciso di offrire a tutti le stesse sensazioni che provavamo noi all’epoca. Si chiama Franco Bevilacqua e il suo libro I tetti di Roma raccontano (ediz. Arte’m) parla proprio di questo. Lui lassù c’è andato armato di fogli per disegnare e, con la sua matita, ha immortalato tutto quello che vedeva, dai comignoli alle guglie, dai campanili alle grondaie, dalle rondini ai gatti, dai gabbiani enormi alle lucertole che si stendono al sole.
Ma forse ha fatto ancora di più, ha cercato di riprendere, riuscendoci perfettamente, anche quella luce particolarissima che si vede da lassù e che solo chi c’è stato su quei tetti può conoscere. I suoi meravigliosi acquarelli ci trasmettono la gioia di visitare la città eterna da un punto di vista privilegiato e quasi onirico che il miglior Fellini avrebbe apprezzato con tutto il cuore.
"L’idea mi è venuta ripensando a quando, studente di architettura, mi appostavo negli angoli più suggestivi della città per prepararmi all’esame di disegno dal vero" ha detto l’autore in una recente intervista. "Ma quegli angoli solitari oggi non esistono più: strade e piazze oggi sono invase da auto, moto, furgoni, autobus, camion, parcheggiati nel più anarchico disordine anche sui marciapiedi. È cambiata la luce, sono saturati gli spazi, sono svaniti gli odori. Abbiamo perso il concetto del bello, ci siamo assuefatti al degrado. Per questo ho lanciato lo sguardo in alto e ho cominciato a incuriosirmi dei tetti. Ho scoperto il mare dei tetti, un mare leggermente agitato, ma mai in tempesta. La vita della città arriva quassù sfumata e si possono ammirare scorci inconsueti, scoprire cortili principeschi, panorami mozzafiato. Dai tetti si rimane abbagliati dai tramonti, quando la luce rincorre e accarezza le innumerevoli cupole. Mentre laggiù nelle strade avanza il buio, qui la luce permane, come se non volesse consegnare alla notte tanta bellezza. I tetti sono fuori dal tempo, e per questo si salvano dal nostro tempo".
Leggendo questo libro ho ripensato ai miei anni giovanili e alla fortuna che avevamo avuto noi ragazzi ad ottenere quelle magiche chiavi che non erano state solo lo strumento per entrare gratuitamente in un vecchio appartamento, in realtà avevano rappresentato molto di più e cioè la combinazione segreta per accedere ad un sogno, quello di una città antica e fantastica osservata da lontano, come fanno sempre gli angeli e come noi raramente possiamo fare.