Nel novembre del 2008, il giornale per il quale scrivevo mi commissionó un articolo sulla presentazione del film di Matteo Garrone Gomorra al festival New Italian Cinema Events (NICE) di San Francisco.
Secondo le istruzioni inviatemi in California dalla redazione di New York di Oggi7 (capeggiata all'epoca da un certo Stefano Vaccara…) il pezzo doveva essere strutturato un po' come una via di mezzo tra la cronaca dell'evento; una recensione sull'aspetto artistico del film e un commento, da napoletano, sui contenuti sociologici descritti.
Inaspettatamente, l'articolo che ne scaturí provocó una certa dose di costernazione attirando i commenti ostili di molti dei miei conterranei partenopei sia residenti in Italia che in America.
Secondo i miei critici, il pezzo rendeva un'immagine eccessivamente negativa di Napoli e dei napoletani facendo leva su "luoghi comuni" e "stereotipi inaccettabili", per usare le loro parole, soprattutto provenienti da uno come me, che ormai, "avendo lasciato da anni la cittá", non aveva "le credenziali adatte ad esprimere pareri" su una realtá che ormai non conosceva piú.
Non so se le mie parole in quell'articolo siano state effettivamente troppo aspre o se, in quanto espatriato, mi sarei potuto permettere o meno di esprimere la mia opinione da questo lato dell'oceano.
Una cosa so per certo: che quel pezzo fu scritto con un sentimento di profonda rabbia per le immagini e le situazioni ritratte nel film proprio perché, avendo trascorso a Napoli i primi 27 anni della mia vita, sapevo bene che il valore artistico del film consisteva proprio nell'aver saputo rappresentare con grande efficacia verista una realtá per me riconoscibilissima, se non proprio per le situazioni specifiche, per il piú generale ambito sociale e culturale descritto.
Un'altra cosa che so, é che quella rabbia che ho lasciato trapelare nell'additare i problemi della mia cittá, scaturisce dal mio intenso amore per Napoli e per la sua gente e da una disperata voglia di riscatto che metta a tacere, una volta per sempre, gli altri critici: quelli animati da sentimenti piú chiaramente ostili e prevenuti.
Il mio pezzo su Gomorra mi é tornato alla mente in queste ultime settimane in seguito alla pubblicazione sul New York Times di una serie di articoli sul Meridione d'Italia.
Il primo, scritto da Beppe Severgnini e intitolato "Why Nobody Goes to Naples" (Perché nessuno va a Napoli), tratta dell'endemica incapacitá da parte degli italiani in genere e dei meridionali in particolare, di valorizzare e sfruttare l'inestimabile patrimonio di risorse storiche, archeologiche, paesaggistiche e gastronomiche che, come dice Severgnini, dovrebbero essere per il Sud, ció che il petrolio rappresenta per la Norvegia: un'enorme fonte di ricchezza. Una ricchezza per altro, che, al contrario del petrolio, é inesauribile e "virtuosa" dal punto di vista della sostenibilitá ambientale.
Invece, negli ultimi decenni la devastazione ambientale del Mezzogiorno ha raggiunto livelli eccezionali: chilometri e chilometri di costa incontaminata e di territorio in generale, sono stati cementificati da un'edilizia "alvearistica" di stampo mafioso-balneare; siti archeologici tra i piú importanti del mondo sono stati lasciati a languire in uno stato di abbandono fatiscente pari a quello dei diroccati centri abitati che li circondano; il mare e le campagne sono state avvelenate al punto da compromettere l'esportazione di molti tra i prodotti-pilastro delle economie locali.
Insomma nel Sud, continuiamo imperterriti a scavarci la nostra stessa fossa.
La causa principale di questa situazione é stata riassunta, a mio parere, con una frase efficacissima scritta da Roberto Saviano in un altro, piú recente intervento sul New York Times intitolato "Europe's Mob Economy" (L'economia mafiosa d'Europa).
Riferendosi alla criminalitá organizzata con una massima in realtá applicabile anche ad altri segmenti del corpo sociale del Sud, Saviano scrive di una "tendenza estrema all'evoluzione economica con una tendenza minima all'evoluzione culturale". In altre parole, siamo dotati di una scaltrezza e di una sofisticazione arrivista da ventunesimo secolo abbinata ad un senso morale e culturale da Medioevo.
Ci siamo evoluti dal banditismo con la lupara a quello col laptop ma siamo rimasti comunque "banditi".
Inutile dire che il crimine e il malaffare esistono dappertutto, anche e soprattutto qui in America, dove semmai i soprusi perpetrati dai poteri forti sono ancora piú codificati ed istituzionalizzati.
Negli Stati Uniti e in altri paesi avanzati tuttavia, questi poteri forti sono costituiti da politici, banchieri, finanzieri, gente insomma senza scrupoli ma almeno, nella maggior parte dei casi, con una licenza elementare. Nel nostro Meridione invece, i poteri forti mafiosi, quelli che decidono il modo in cui si vive dalle nostre parti, sono ancora culturalmente al limite dell'analfabetismo. Saranno anche miliardari con i conti in Svizzera e le societá off-shore ma, a livello culturale (per non parlare di quello etico-morale…), restano dei pecorai (con tutto il rispetto per il bucolico settore della transumanza…).
E questo é uno dei motivi fondamentali della devastazione avvenuta in questi anni nel Mezzogiorno.
Anche il finanziere-mafioso americano non ha scrupoli a smaltire illegalmente rifiuti tossici ma, al contrario dei nostri "pecorai", si guarda bene dall'andarseli a sotterrare sotto casa sua! Almeno ha la lungimiranza di non andare ad avvelenare la sua stessa falda acquifera.
La discussione organizzata dal New York Times (che, oltre a quello di Saviano, comprende gli interventi di altri quattro esperti) é stata ispirata, a sua volta, dalla pubblicazione di un terzo articolo stampato dallo stesso quotidiano newyorchese il 24 aprile e intitolato "Italy's Mob extends reach in Europe" (La mafia italiana si espande in Europa). Come si intuisce dal titolo, il pezzo descrive la graduale ma inesorabile insinuazione del parassitismo mafioso nell'economia legale attraverso il riciclaggio di fondi provenienti da attivitá illecite che, da tempo, si é esteso oltre i confini delle tradizionali regioni di mafia nel resto d'Italia e, ora anche d'Europa.
Il motivo per cui ho trovato questo articolo interessante é che nel mio pezzo su Gomorra, una delle espressioni che suscitó piú sdegno tra i miei critici fu proprio il mio accenno ad una "metastasi" alla "propagazione di un contagio". Ora che, a sei anni di distanza, la mia diagnosi sull'evoluzione sociale del fenomeno mafioso non sembra piú tanto esagerata, resta da vedere se quel Mezzogiorno dal quale é partito il "contagio" riuscirá o meno a risvegliare il suo "sistema immunitario" e a trovare in sé stesso la forza per sconfiggere la sua malattia endemica.
Dopotutto, il primo passo verso la risoluzione di ogni problema consiste proprio nell'ammettere che il problema esiste.