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May 6, 2014
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May 6, 2014
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L’euro, la lira e il falso mito della sovranità *

Lorenzo Bini Smaghi - lavoce.infobyLorenzo Bini Smaghi - lavoce.info
Time: 5 mins read

 

Questa tesi [Uscendo dall’euro si possono recuperare spazi di sovranità per la politica monetaria e per le altre politiche economiche. Si potrebbero così adottare misure efficaci a sostegno dei paesi membri] parte dall’ipotesi che prima dell’euro i paesi fossero pienamente sovrani nella conduzione della politica economica, in particolare quella monetaria. Questa ipotesi è certamente valida per la Germania. Rinunciando al marco, i tedeschi hanno accettato di non avere più il controllo sulla propria moneta. Per la maggior parte degli altri paesi, la sovranità monetaria era di fatto inesistente prima dell’euro, poiché mantenevano uno stretto rapporto di cambio tra le loro monete e il marco. Le decisioni delle rispettive banche centrali seguivano di pochi minuti quelle della Bundesbank.  Adottando l’euro, questi paesi hanno in realtà guadagnato – e non perso – sovranità, poiché hanno ora il potere di designare un membro del Comitato direttivo della Bce. Ritornare alla situazione precedente all’euro non garantirebbe dunque a nessuno, eccetto che alla Germania, di recuperare sovranità e di poter gestire la propria moneta in modo indipendente.

DEPREZZAMENTO DELLA MONETA

Disporre della propria moneta consentiva comunque di modificare il tasso di cambio, il che non è più possibile con l’euro. È però illusorio pensare che prima dell’euro le autorità monetarie potessero decidere autonomamente il rapporto tra le loro monete.  I tassi di cambio vengono determinati in larga misura dalle forze di mercato, che possono spingere le monete su valori non in linea con i fondamentali dei rispettivi paesi. Questo è il vero motivo per cui le autorità monetarie  sono spesso intervenute in passato con misure restrittive, per contrastare un deprezzamento considerato eccessivo della moneta, producendo effetti recessivi sul sistema economico. Per chi ha la memoria corta, basta esaminare l’evoluzione recente della politica monetaria nei paesi emergenti come la Turchia, il Brasile o l’India. La fuoriuscita di capitali, provocata in particolare dal cambiamento dell’impostazione della politica monetaria negli Stati Uniti, oltre alle incertezze politiche interne, ha determinato un forte deprezzamento del cambio con effetti sull’inflazione e sui rendimenti a lungo termine. Le banche centrali hanno dovuto aumentare i tassi d’interesse per arrestare l’emorragia di capitali, nonostante il rallentamento congiunturale in corso. In altri casi, tuttavia, come nel Regno Unito o in Svezia, il deprezzamento del tasso di cambio avvenuto durante la crisi  è stato contenuto e non ha dato luogo ad un aumento dei tassi d’interesse.

L’ILLUSIONE DEL RITORNO AGLI ANNI ‘70

La svalutazione del cambio consente di recuperare competitività quando non dà luogo ad inflazione interna. La manovra è credibile se la banca centrale è indipendente, con un obiettivo ben definito in termini di stabilità dei prezzi. Inoltre, il mercato del lavoro deve essere sufficientemente flessibile da evitare che i salari vengano indicizzati all’inflazione importata, il che vanificherebbe gli effetti della svalutazione. La finanza pubblica deve essere infine sotto controllo, ed evitare il rischio di un avvitamento del debito.
In sintesi, una svalutazione del cambio può essere utile per far fronte a shock asimmetrici, che avvengono di rado, solo a certe condizioni. Non è efficace invece se viene usata ripetutamente per cercare di stimolare la crescita e finanziare il debito pubblico, come vorrebbe chi propone di uscire dall’euro. Esaminando con attenzione le tesi di chi in Italia chiede di uscire dall’unione monetaria, ci si accorge che l’intenzione è quella di tornare alla situazione precedente al divorzio tra la Banca d’Italia e il Tesoro nel 1981, quando la politica monetaria veniva usata come strumento per garantire bassi tassi d’interesse ai prenditori di fondi, in particolare lo Stato. In un contesto di integrazione finanziaria, con piena mobilità dei capitali, ciò non è più possibile. L’utilizzo della moneta per finanziare gli Stati darebbe luogo a svalutazioni successive e a fughe di capitali, con il risultato di far salire i tassi d’interesse su livelli significativamente più elevati, come era il caso poco prima dell’euro. Per tornare a una situazione come quella degli anni ’70, come desidera chi vuole uscire dall’euro, bisognerebbe ripristinare i controlli sui movimenti di capitale, per impedire ai cittadini di investire all’estero e obbligarli a usare i loro risparmi solo in titoli nazionali, anche se sono più rischiosi e con minore rendimento. Bisognerebbe, inoltre, costringere il sistema bancario ad acquistare titoli di Stato, imponendo vincoli di portafoglio come quelli che venivano usati in quegli anni. Queste misure non sono compatibili con l’attuazione di un mercato integrato come quello che è stato realizzato negli ultimi 20 anni in Europa. Chi propone di uscire dall’euro, e di ripristinare le condizioni istituzionali degli anni ’70 propone in realtà che l’Italia esca dall’Unione Europea.
La decisione di adottare una moneta unica è stata presa proprio alla luce dell’esperienza degli anni ’70 e ’80, quando i paesi europei si sono accorti che il concetto di sovranità monetaria era in larga parte illusorio. All’interno di una unione economica, con piena integrazione dei mercati, le politiche monetarie si condizionano a vicenda, e il ruolo predominante viene esercitato dall’economia più grande e dalla moneta più stabile.  Prima dell’euro era il marco la moneta di riferimento,  anche per gli investitori internazionali. Il valore delle altre valute era influenzato dalle decisioni della Bundesbank, prese in base agli interessi tedeschi. Il sistema monetario precedente all’euro era pertanto fortemente asimmetrico, e l’onere dell’aggiustamento ricadeva esclusivamente sui paesi in disavanzo. 
In sintesi, è un’illusione pensare che fuori dall’euro un paese come l’Italia riuscirebbe ad un tratto a recuperare piena sovranità monetaria, senza pagare alcun costo.

* Pubblicato originariamente per il sito lavoce.info.  Dal volume in libreria in questi giorni “33 False Verità sull’Europa”, Il Mulino.

 

Lorenzo Bini Smaghi Lorenzo Bini Smaghi: PhD presso l'Università di Chicago. Dal 1983 al 1994 ha lavorato al Centro studi della Banca d'Italia Nel 1998 è capo della Divisione analisi e pianificazione dell'Istituto monetario europeo e dal 1998 al 2005 ricopre l'incarico di dirigente generale della Direzione rapporti finanziari internazionali del Ministero dell'Economia e delle Finanze. È membro dell'advisory board del Paolo Baffi Centre on Central Banking and Financial Regulation dell'Università Commerciale Luigi Bocconi di Milano. Dal giugno 2005 è stato membro del Comitato esecutivo della Banca centrale europea. Da gennaio 2012 è visiting scholar ad Harvard. Dall'ottobre 2012 è presidente di Snam Rete Gas.

 

 

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