Quest’oggi, sui media italiani, si festeggia la crescita sostenuta del PIL, il prodotto interno lordo italiano che, nel secondo trimestre del 2021, è infatti salito di un +2,70% rispetto al +1,50% atteso dagli addetti ai lavori, finanza e mercati per la precisione. Con tali numeri l’ISTAT, l’istituto italiano di statistica, supera la propria istituzionale cautela e prevede che la crescita complessiva in Italia sarà pari al +4,80% per l’intero 2021.
Nello specifico si è avuto una linea stazionaria nel comparto del settore agricolo e della pesca mentre, nel comparto industriale e in quello dei servizi, c’è stata una vera e propria impennata che ha consentito l’ottima previsione di crescita dell’ISTAT del +4,80%.
I dati, complessivamente al di sopra delle stime di quasi tutti gli analisti, lasciano ben sperare, ma è bene anche non esagerare nelle attese in quanto la stessa ISTAT mette un po’ le mani avanti ed in un comunicato suggerisce che “L’incremento ottenuto, “eccezionalmente marcato”, registrato su base annua deriva dal confronto con il punto di minimo toccato nel secondo trimestre del 2020 in corrispondenza dell’apice della crisi sanitaria dovuta alla diffusione del Covid.”
Per cui i dati sono, al momento, molto positivi, ma freniamo i facili entusiasmi.
Ad aumentare il livello di soddisfazione sono intervenuti i dati provenienti, in parallelo, dalla Germania, dalla Francia e dalla Spagna. Infatti, il Pil tedesco cresce del +1,50% rispetto al trimestre precedente secondo gli ultimi dati dell’Ufficio federale di statistica di Berlino. Per la Francia, invece, si è avuto, secondo quanto diffuso dal loro istituto nazionale di statistica, che il Pil è salito dello +0,90%, contro la crescita zero dei primi tre mesi dell’anno. Anche l’economia spagnola nel secondo trimestre accelera, collocandosi ad un +2,80% dove l’exploit maggiore lo hanno avuto i consumi interni aumentati di un + 6,60%.
Qualcuno, all’interno del mondo politico italiano, si lascia andare ad entusiasmi esagerati e sproporzionati, buttando il cuore oltre l’ostacolo affermando addirittura che l’Italia “sta vivendo una vera e propria fase di boom economico”.
Prima di tutto si può parlare di boom economico allorquando questi numeri rimangono tali per diversi anni e, contestualmente, ci dovrebbe essere una vera e propria esplosione nell’ambito dei posti di lavoro. Invece, sempre l’ISTAT ci dice che “nel corso degli ultimi 5 mesi abbiamo registrato un aumento di oltre 400 mila occupati” e che comunque rispetto al febbraio del 2020, inizio della pandemia, il numero di occupati è ancora inferiore di oltre 470.000 unità.
Come ho già affermato in precedenti articoli, l’economia non è una scienza esatta a cui applicando una semplice formula matematica si riesce a dare crescita, espansione e occupazione. In più l’Italia ha appena iniziato un faticoso iter in cui deve totalmente ristrutturarsi attraverso riforme strutturali che si è impegnata ad approvare con l’UE a Bruxelles.
La fatica per varare la cosiddetta riforma della giustizia dimostra quanto sia stretto il
sentiero da percorrere e dei progressi, in senso giudiziario.
Il ministro Cartabia li ha ottenuti ma sono ancora poco rispetto a quello che necessiterebbe. Per fortuna ci saranno dei referendum che dovrebbero, una volta per tutte, riequilibrare l’eccesso di poteri da parte dei procuratori che ha superato ogni limite.
Accanto alla riforma del fisco e della semplificazione burocratica manca ancora un tassello fondamentale che ancora non è stato neppure citato: l’assenza totale di una vera politica industriale italiana.
Un Paese deve obbligatoriamente avere delle produzioni industriali privilegiate con cui cercare di primeggiare a livello globale e qui occorrerebbe fare delle scelte coerenti con l’economia e l’ambiente come, ad esempio, il caso ILVA di Taranto dove, la procura, non ha dato tempo e modo di riallineare in termini di compatibilità ambientale la produzione di acciaio da parte della più grande azienda in Europa.
Un’operazione che dovrebbe accompagnare la nascita di una politica industriale è quella di passare dal mito imprenditoriale ormai tramontato “del piccolo è bello” che andava bene negli anni ’80 alla creazione di compagnie grandi per potersi conquistare mercati e spazi.