Il crollo del ponte Morandi a Genova e la drammaticità dei 43 morti che, purtroppo, l’hanno accompagnato, può essere lo spartiacque per affrontare problemi che rischiano di profilarsi tra alcuni decenni e che potrebbero rivelarsi forieri di altre sventure.
Il crollo del ponte Morandi è una sfida che va colta, esso è un rubicone che segna anche la fine dell’era del cemento armato, dello sventramento delle montagne per estrarre materiale, della fine del non riciclabile. Non si può tacere sull’enorme spada di Damocle che pesa sul patrimonio edilizio pubblico ma ancor più privato legato alla scarsa durabilità del cemento armato. Il cemento armato, cioè la modalità di costruzione che da decenni ormai caratterizza le opere pubbliche e civili italiane, come tutti gli esperti concordano, ha una durata limitata nel tempo e il suo ciclo – come la letteratura scientifica insegna – tra poco entrerà nella fase di fine vita. La durata media, infatti, di una struttura in cemento armato, secondo le più accreditate tesi scientifiche, è di circa settant’anni e non cento come si pensava quando ha debuttato come tecnica edilizia privilegiata.
Settant’anni significa che tutto ciò che è stato costruito tra gli anni ‘40 e gli anni ‘50 comincia ad entrare, potenzialmente, in una fase rischiosa, per non parlare degli inizi degli anni ‘60, fase di urbanizzazione accelerata con l’utilizzo di un cemento armato, peraltro impoverito, da speculatori senza scrupoli, che hanno reso più fragili le infrastrutture pubbliche e le costruzioni ad uso civile.
Le nostre città rischiano il dissolvimento con impatti sociali, di salute ed ambientali insostenibili, vanno trovati soluzioni innovative in grado di preservare il patrimonio esistente, soluzioni che sia ecosostenibili come ad esempio l’utilizzo del ferro, ben recuperabile. Ma accanto al problema del mantenimento del patrimonio edilizio degli ultimi 70 anni, vi è un’altra sfida per l’Italia ed è la messa in sicurezza dei mille paesi che fanno la storia, l’identità dalle molteplici sfaccettature. La distensione della catena Appenninica rischia di cancellare la storia dei borghi italiani un patrimonio di bellezza e di convivenza tra uomo e natura che va salvato.
Al di là di ogni appartenenza politica va varato come in guerra un programma di ricerca straordinario che risolva i problemi senza facili scorciatoie degli abbattimenti e ricostruzioni, altri paesi (vedi gli Stati Uniti d’America) demoliscono e ricostruiscono, ma per il nostro Paese sposare questo modello non ha senso e peraltro mancherebbero le risorse private, ma al contrario l’Italia ha le risorse umane e culturali per vincere questa sfida. Vincere questa sfida che in prima analisi per difetto per il solo meridione e centro Italia per una popolazione di circa 40 milioni di abitanti, vale oltre 200 miliardi di Euro pari circa alla metà del bilancio intero dello Stato. Solo questa semplice azione sarebbe risolutiva per affrontare la crisi del Sud, dare risposte ai giovani, ai singoli professionisti, fare rinascere arti e professioni.
Cosa possiamo fare per scongiurare questi rischi?
Innanzitutto, una mobilitazione eccezionale e straordinaria della ricerca italiana, che si ponga attraverso la chimica o l’ingegneristica, di prolungare la vita del cemento armato. In secondo luogo, una ricognizione puntuale delle condizioni delle strutture civili e pubbliche che sono entrate in questa fase di deperimento.
Per tale motivo chiedo al Parlamento che si istituisca un Premio Nazionale congruo di almeno 2 Milioni di Euro, esente da tassazione, da assegnare ai ricercatori italiani che sapranno proporre entro il termine di tre anni la migliore soluzione per la conservazione del patrimonio basato sul cemento armato ed un eguale premio per la migliore delle soluzioni innovative e conservative del patrimonio storico delle costruzioni a muri portanti, soluzione che non deve alterare l’aspetto delle singole costruzione ne la loro storia ma deve garantirne la conservazione e messa in sicurezza dagli eventi naturali prima tra tutto quello sismico.