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February 20, 2018
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Blue Jeans, Coca Cola e Rock’n’Roll: ecco l’America delle icone che muore

È in corso una crisi silenziosa di prodotti e marche, che hanno segnato oltre mezzo secolo di vita americana, e che stanno entrando in agonia tutte assieme

James HansenbyJames Hansen
Blue Jeans, Coca Cola e Rock’n’Roll: ecco l’America delle icone che muore

Un fotogramma del famoso spot pubblicitario della Coca Cola, Hilltop, nel 1971 (Foto da AdWeek.com)

Time: 3 mins read

Le crisi americane del momento sono più politiche e “Trumpiane” che economiche, dove l’ansia crescente è invece legata principalmente al timore che possa finire un lungo periodo di marcati rialzi in borsa. Però, anche se i soldi ci sono, qualcosa di importante e non facilmente spiegabile sta succedendo negli Stati Uniti. Senza una causa precisa, è in corso un’improvvisa moria di icone. Prodotti, marchi e usanze che hanno segnato e rappresentato oltre mezzo secolo di vita americana stanno entrando in agonia tutti insieme.

La “morte” del rock’n’roll è stata troppe volte annunciata per commuovere più di tanto – ma nell’ultimo decennio la vendita di chitarre elettriche negli Usa ha perso un mezzo milione di pezzi l’anno e i due più grandi produttori, Gibson e Fender, annegano nei debiti – un segno che il comune sogno giovanile di diventare un divo del rock è al tramonto. Il musicista Eric Clapton dice: “Non so, forse è finita per la chitarra”. Dopo sei decenni, dagli anni ‘50, la gioventù Usa smette finalmente di indossare i blue jeans – si dice per la vittoria definitiva dei capi della categoria leisure/sport – tute, leggings, yoga pants, ecc. La parte alta del mercato è costellata di fallimenti e Levi Strauss, il primo produttore, ha dovuto tagliare vistosamente i prezzi dei modelli “classici” in denim. Fa sapere che esplora nuovi tessuti elasticizzati, più comodi da portare. La lunga epoca dei jeans coincide con l’enorme successo globale della Coca Cola. Ora la Coca soffre. Negli ultimi tempi perde, in volumi, l’1% al trimestre mentre si accelera l’abbandono delle bibite gasate da parte dei consumatori Usa.

Altra icona è la moto Harley-Davidson. I giovani che ne hanno lungamente adorato il rombo basso del motore e le forme “muscolari” le stanno abbandonando. Il “biker” americano è oggi un signore dai capelli bianchi. I conti societari ne risentono. Nel 2017 – il quarto anno di fatturato in calo – le vendite Usa sono scese dell’8,5% e quelle internazionali del 3,9%. L’hamburger, il più caratteristico fast food americano, è fortemente identificato con McDonald’s. Le vendite della Società reggono nel mondo, ma non negli States, dove da un quinquennio i volumi si restringono di anno in anno – salvati dal peggio non dagli hamburger ma dall’all day breakfast, uova e frittelle a tutte le ore.

Chewing gum? Vendite in declino da dieci anni e nessuno che sappia perché. I tanti ex fumatori americani dovevano mettersi a masticare la gomma, ma non è andata così. I produttori danno –  misteriosamente – la colpa agli smart phone, ma forse solo perché il problema diventò evidente a partire dal 2007, l’anno in cui apparve il primo modello iPhone. Poi c’è il football americano. Nel dopoguerra prese il posto che fu del baseball, lo sport nazionale della prima metà del secolo. Ora invece, dopo decenni di dominio, scompaiono i tifosi. Il pubblico per le partite in televisione della National Football League è sceso del 10% nel 2017, dopo essere già calato dell’8% nel 2016.

Vero, i tempi cambiano. Forse la domanda più interessante è: come mai hanno atteso tanto per cambiare in questo caso? La sintonia temporale della lunga durata dei fenomeni, come anche la coincidenza dell’approssimarsi della fine, suggerisce un’ipotesi. Non sarà che si stia finalmente chiudendo un lunghissimo dopoguerra americano, durato quasi ininterrottamente dal 1945?

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James Hansen

James Hansen

Americano della West Coast, vivo in Italia da molti anni. Sono arrivato, giovane, nel servizio diplomatico USA come vice console a Napoli. Lì ho capito che “da grande” non volevo fare l’ambasciatore. Sono passato al giornalismo come corrispondente dell’International Herald Tribune e del Daily Telegraph, in seguito spostandomi “dall’altra parte della scrivania” come capoufficio stampa di Olivetti, di Fininvest e infine di Telecom Italia. Da tempo mi occupo di “diplomazia privata”, accompagnando grandi aziende italiane nelle loro avventure internazionali. È la diplomazia che mi immaginavo da ragazzo, con obiettivi più o meno chiari e i mezzi e l’autonomia per perseguirli. An American from the West Coast, I have been living in Italy for many years. I got here young, with the diplomatic service as the US vice consul in Naples. There I realized that, as a grown up, I didn't want to be an ambassador. I turned to journalism as a correspondent for the International Herald Tribune and the Daily Telegraph, and later on, I moved to the “other side of the desk” as chief of press for Olivetti, Fininvest and finally Telecom Italia. I deal with "private diplomacy", backing up large Italian companies in their international adventures. It's the diplomacy as I imagined it when I was young, with more or less clear goals and the means and autonomy to pursue them.

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