È cronaca di questi giorni la certificazione del sostanziale fallimento della Regione, con il conseguente blocco della spesa, annunciato dall’assessore all’Economia, Alessandro Baccei. Cose sapute e risapute. Saputo e risaputo, ad esempio, è che la Regione non fallisce per gli sprechi e il malaffare, come magari titolano i grandi giornali italiani, ma per i troppi crediti abbonati o non riscossi nei confronti della Regione siciliana. Su questo tema e sui conti della mancata attuazione dello Statuto, martedì prossimo ci sarà una conferenza stampa del Movimento Sicilia Nazione. Conferenza che si rende indispensabile, dopo che l’assessore a rifiutato il pubblico contraddittorio sui conti della Regione.
Oggi però vogliamo parlare di un’altra cosa: gli accantonamenti a favore dell’Erario da parte della Regione dati a titolo di “contributo al risanamento della finanza pubblica”. È davvero curioso come basta soltanto sollevare una delle tante ruberie italiane ai danni della Sicilia per vedere come sarebbe piuttosto facile risanare i conti regionali, per non parlare di come andrebbero le cose se si potesse recuperare la legittimità da tutti i lati.
Cos’è questo contributo? Iniziamo da lì. Intanto diciamo subito che, fino al 2011, non esisteva, non è previsto dallo Statuto (ma chi se ne frega!, diranno a Roma), non è previsto dal decreto “attuativo” (si fa per dire) dello Statuto del 1965, insomma è una novità fresca fresca di questi ultimi anni e, francamente, per quel che riguarda la Sicilia, illegittima da un punto di vista costituzionale. Ma i diritti costituzionali della Sicilia pare che a Roma non costituiscano un problema.
Questa novità discende in ultimo dalla “nuova” Unione Europea, quella successiva al Trattato di Lisbona (2007, entrato in vigore nel 2009), con la quale i Paesi europei, ed in specie quelli dell’Eurozona hanno ceduto la propria sovranità fiscale non si capisce bene a chi. A latere di questi trattati europei-capestro l’Italia ne ha firmato un altro, il c.d. “Fiscal Compact”, con il quale si è impegnata, su richiesta essenzialmente della Germania, di riportare il proprio debito pubblico, a tappe forzate, dal 134 % circa sul PIL (Prodotto Interno Lordo) al 60% che è scritto sulle sacre tavole del Trattato di Maastricht del 1992. Ai tempi di Monti/Letta ci si impegnò, per essere più bravi degli altri, ad anticipare di un anno l’entrata in vigore di questo trattato rispetto agli altri Paesi europei.
Va detto che nessuno l’ha mai attuato, specie dopo la crisi greca. E va detto che questa parte del Trattato è semplicemente folle. Si tratta di praticare ogni anno un salasso di 20 o 25 miliardi sulle finanze pubbliche italiane, lo stesso Paese che non è mai riuscito a trovare 4 miliardi per togliere l’IMU che infatti ci ha rifilato sotto altro nome. Renzi, che stupido non è, non ha denunciato il Fiscal Compact, che resta lì, come una mina vagante, ma lo pospone sempre un po’, perché di volta in volta gli serve un po’ di deficit per dare qualche mancetta a qualche elettore vecchio e nuovo del PD, restando a galleggiare su un’austerity che non viene rinnegata, ma soltanto poco poco ammorbidita, per evitare la rivolta sociale.
Se, però, il Fiscal Compact in Italia non entra, il contributo degli enti locali per il suo conseguimento è partito inesorabile. E’ iniziato con Monti, nel 2012, e i suoi successori si sono guardati bene dal toglierlo. Anno dopo anno Regioni, Comuni e ciò che resta delle Province sono sottoposte ad un continuo salasso, lasciando intatte le funzioni di cui sono investite. Ma questa è l’Italia di oggi: a Roma le imposte, agli enti locali le funzioni.
In questa follia collettiva lo Stato riesce, quanto può, a scaricare il costo delle operazioni di “risanamento” quanto più possibile alle Regioni meridionali. Forse perché più solide? Questo costo è scaricato soprattutto sulla Sicilia, che sopporta un peso straordinario, non paragonabile a quello di qualunque altra Regione d’Italia. Il trattamento riservato da Renzi e predecessori alla Sicilia non si può più nemmeno definire un trattamento destinato ad una propria Regione, ma ad una Nazione estera, sconfitta e occupata, cui fare pagare il prezzo della propria sconfitta. Proprio così: mentre qualcuno favoleggia del Ponte, l’Italia sbrana la Sicilia.
Polemiche sicilianiste? Vittimismo piagnone? Vediamo un po’. Per ragioni professionali ragioniamo con norme e numeri. Potrei parlare pure del contributo dei Comuni siciliani al risanamento della finanza pubblica, ma – per ragioni di spazio – mi limito alla Regione.
Intanto le modalità qualitative di questo contributo sono diverse tra la Regione siciliana e tutti le altre. Per le altre Regioni il contributo si traduce in un “taglio dei trasferimenti statali”. In realtà, gli strumenti sono due: oltre al taglio vero e proprio c’è l’assurdo, incomprensibile “tetto alla spesa” previsto dal Patto di stabilità interno. La qual cosa significa che anche se ho i soldi in tasca non devo spenderli. Di questo magari ne parliamo altra volta, zero in economia, effetto recessivo voluto e gratuito, ma lasciamo perdere per ora e concentriamoci sui tagli. Concentriamoci, ma fino a un certo punto. Pensate che nel “gergo” euro-finanziario, se lo Stato allenta per qualche ragione questi vincoli, se cioè dà maggiori “spazi finanziari” a una Regione (cioè diritto di spendere i “propri” soldi), ciò viene scambiato per un dono da parte dello Stato. Pensate che la famosa rinuncia al gettito del contenzioso contro lo Stato, firmato da Crocetta, aveva come contropartita non “denaro fresco” (500 milioni contro 5 miliardi) come si disse allora, ma solo un allentamento proprio del Patto di stabilità, cioè il diritto di poter spendere i propri 500 milioni, non altri. Comunque, torniamo ai tagli.
In Sicilia il contributo già funziona in un altro modo. Se lo Stato dovesse tagliare i trasferimenti, in breve non avrebbe più cosa tagliare. Perché lo Stato, tranne un po’ di sanità, non trasferisce praticamente più nulla alla Regione. Come farebbero i giornali nazionali a dire che siamo un peso per la nazione se poi è messo nero su bianco che lo Stato non dà nulla?
E allora per la Sicilia il contributo si paga in un altro modo: attraverso gli “accantonamenti” diretti sui nostri cespiti fiscali alla fonte. Cioè l’Agenzia delle Entrate, non paga delle infinite frodi dello Stato verso la Regione siciliana (da ultimo lo spostamento del server che elabora le paghe dei dipendenti statali sul Continente per riprendersene l’IRPEF, ma mille altre cose ancora, sulle briciole che restano alla Regione) opera un ulteriore accantonamento (incostituzionale) a favore dello Stato.
Si tratta quindi di nostre tasse che vanno direttamente a Roma, e non di minori trasferimenti da Roma. Siamo trattati come un “Paese tributario”. Vi pare poco?
Ma, oltre al dato qualitativo, che già di per sé è scandaloso, c’è quello quantitativo che grida vendetta. Limitiamoci al dato del 2014 (gli altri, precedenti o successivi, non si discostano molto). Ebbene, nel 2014 il contributo della Sicilia è pari a circa un miliardo di euro su 80 miliardi di PIL. Il contributo di tutte le Regioni a Statuto speciale (che in Italia sono cinque) è pari a 2,8 miliardi circa. Quindi quasi la metà lo paghiamo solo noi. Tenete conto che il PIL del Friuli Venezia Giulia è da solo paragonabile a quello della Sicilia. Ma noi non ce l’abbiamo con loro, siamo generosi.
Il contributo delle Regioni a Statuto ordinario, tutte messe insieme, è invece pari a circa 5,6 miliardi.
Ora guardiamo al PIL. Il PIL dell’Italia, senza la Sicilia, è di poco superiore ai 2.000 miliardi di euro. Quello della Sicilia, come abbiamo detto, è di circa 80 miliardi. Rapportiamo i contributi al PIL. (5,6 + 2,8) / 2.000 = 0,4 % del PIL per l’Italia. 1 / 80 = 1,25 % del Pil per la Sicilia.
I confronti sono fatti per valori assoluti. Le Regioni italiane pagano mediamente lo 0,4 % del loro prodotto a tale titolo, la sola Sicilia, per incoraggiarne l’economia, per l’1,25 %! Non voglio nemmeno parlare della proporzionalità del sacrificio, per cui se domando una stessa cifra a un ricco e a un povero (e la Sicilia ha una ricchezza media ormai pari ai 2/3 di quella “nazionale”) quello che soffre di più è il povero. Pensate cosa succede se chiedo di più al povero che al ricco. Ma questa è l’Italia di oggi. Viva l’Italia e i Siciliani orgogliosi di essere italiani.