Al ristorante dopo una conferenza con il nostro ospite e alcuni studenti ho dato al cameriere il mio telefonino perché ci facesse una foto. Mica era un ristorante di lusso: ma il cameriere l’ha guardato e me l’ha restituito con un’ombra di disappunto e molta gentilezza (ormai il minimo che bisogna dare di mancia è il 18% del conto, più frequentemente il 20% o il 22%, figuriamoci se non sono gentili) e ha tirato fuori il suo iPhone 6 Plus, bigger than bigger come dice la pubblicità. La foto che poi mi ha spedito era molto buona e a me piace fare fotografie. Ma non mi comprerò un iPhone. Perché qualche mese fa la Apple è stata la prima compagnia a raggiungere il valore azionario di 700 miliardi di dollari: una cifra così assurda da non essere facilmente immaginabile; però pensate che solo 19 nazioni al mondo hanno un PIL più alto.
Figuriamoci cosa gli importa alla Apple se io compro o non compro un loro cellulare. Lo stesso terrò duro. Perché è inutile lamentarsi della crescente ineguaglianza economica e dello strapotere del denaro se si continua a consentire alle grandi corporation di crescere, di accumulare risorse così ingenti da poter controllare gli stati e di sicuro i politici che li guidano. Una situazione senza uscita: altro che Davide contro Golia o che gli Spartani alle Termopili. Eppure in fondo la libertà di non acquistare un iPhone ce l’abbiamo: abbiamo il potere di costringere la Apple a tornare a essere una compagnia normale. Imagine all the people…: proprio non servirebbe che fossero tutti, basterebbero alcuni milioni di clienti. E non solo per ridimensionare la Apple: qualsiasi impresa che stesse diventando onnipotente.
È già successo, persino nel paese-guida del neocapitalismo liberista, gli Stati Uniti, durante le sue purtroppo brevi fasi di progressismo, come la Progressive Era di fine ottocento, o il New Deal, o gli anni sessanta. In quei periodi l’ostilità della gente nei confronti delle corporation “too big to fail” portò a legislazioni e concrete azioni antimonopolistiche: si arrivò a sostenere che una vera economia di mercato non solo dovesse consentire a qualunque individuo di fondare la propria impresa e competere alla pari, ma avesse bisogno di una grande frammentazione dell’offerta, non di pochi gruppi momentaneamente (e di solito artificiosamente) più efficienti.
Pensate se oggi ci rifiutassimo, in tanti e sistematicamente, di sostenere le grandi multinazionali: non appena superano una certa soglia, basta, si passa alla concorrenza. Lo stesso per i partiti politici: a ogni elezione non farsi fermare dalla paura di cambiare e dalla propaganda del sistema, e se insoddisfatti votare “contro”, in massa, per qualsiasi partito eccetto quello al governo, senza alcuna fedeltà se non alla vera democrazia, che è scelta praticata, non solo ipotetica. E che presuppone un meccanismo di “check and balance” che si esprima a livello istituzionale in una netta divisione dei poteri, a livello politico in una pluralità di movimenti, e a livello economico in una molteplicità di produttori. Anche oltre le leggi antitrust, peraltro ormai ben poco applicate.
Se in politica non tolleriamo il potere di un sovrano non dovremmo tollerarlo neppure in economia, disse il senatore John Sherman, promotore nel 1890 della normativa anti-monopolio americana. Si può andare oltre: non è solo da un re che non vogliamo essere dominati, politicamente ed economicamente: neppure da un’aristocrazia. Invece di rassegnarci alla crisi della democrazia politica imposta dall’economia liberista, bisogna riprendere l’offensiva politica e imporre la democrazia all’economia. Democratizzare il mercato: questo deve essere il progetto antiliberista di una nuova sinistra. Impossibile? Ma allora smettiamola di parlare di lotta alla corruzione, se per farci corrompere basta un logo di moda, e smettiamola di parlare di democrazia e libertà, se abbiamo definitivamente delegato le nostre decisioni alla pubblicità.
Altri articoli di Francesco Erspamer nei blog Controanalisi e Il pensiero inelegante.