Gli italiani sono a un bivio. Possono reagire alla crisi rafforzando la propria identità culturale e sociale e ricostruendo, o forse costruendo per la prima volta, uno stato efficiente che, pur conservando le istituzioni, leggi e consuetudini che hanno fatto dell’Italia un paese straordinario, ne correggano le inefficienze e insufficienze. Oppure possono cadere nella trappola del neocapitalista globalista e credere alla favola raccontata dai suoi giornali e telegiornali, che solo privatizzando e deregolamentando lo stato, ossia distruggendo il sistema pubblico a vantaggio di multinazionali spesso straniere, si raggiungano il benessere e la giustizia.
È vero che tante cose non funzionano: che troppi amministratori sono disonesti, che la pressione fiscale sulle imprese familiari o sul piccolo commercio è assurda, che gli sprechi sono eccessivi, che troppi impiegati fanno troppo poco e male, che si è creata una bolla di privilegio e una casta di intoccabili, che la tolleranza per il crimine e la clemenza nei confronti dei criminali sono insostenibili. Però bisogna chiedersi a chi vada attribuita la principale responsabilità di questa situazione di degrado.
Ecco, il mio punto è che non si tratti di una deriva inevitabile e dovuta a difetti strutturali ma che, al contrario, sia stata deliberatamente provocata, o almeno accentuata, dai poteri forti della finanza e dei media per appropriarsi dei beni comuni, svuotare la democrazia ed espropriare i cittadini del loro potere di controllo sulla politica e l’economia. In altre parole è stato il liberismo stesso, che ora si propone come soluzione, a indurre la corruzione e l’inefficienza dello stato. In due modi: 1) Indirettamente: sostituendo l’ideologia del successo e l’individualismo all’etica e alla solidarietà, ossia premiando apertamente i comportamenti egoistici, che portino vantaggi materiali e celebrità a chi sacrifichi l’interesse collettivo a quello personale. 2) Direttamente: allentando i controlli, lasciando impunita l’evasione e gli abusi, diminuendo la spesa pubblica, legittimando i favoritismi e le raccomandazioni, assegnando le cariche di responsabilità in modo clientelare e preferibilmente a personaggi di nessuna capacità, impedendo il riconoscimento dei meriti reali (non solo il “talento”, difficilmente definibile; soprattutto l’impegno). Sanno bene, i liberisti, che nel momento in cui subentrano la sfiducia e la rassegnazione la gente diventa più disposta a credere ai ciarlatani e alle loro false promesse e addirittura a svendere i suoi diritti per ottanta euro.
Il caso degli Stati Uniti è emblematico. Dal New Deal in poi, per decenni, la middle class americana era stata la più prospera del mondo e della storia. Ma negli anni ottanta fu convinta da Ronald Reagan e dalle multinazionali che lo sostenevano, che il governo li stava derubando a vantaggio dei politici e dei fannulloni e che liberalizzando l’economia e i media (la famosa deregulation) e in generale indebolendo lo stato, tutti ne avrebbero beneficiato. Il risultato, dopo trent’anni di neocapitalismo selvaggio, è evidente a chiunque voglia guardare ai dati invece che alla propaganda dei giornali: gli americani sono più poveri di allora, con l’eccezione di pochi plutocrati che hanno introiti annuali maggiori del PIL della maggior parte delle nazioni del pianeta; le corporation controllano interamente le istituzioni attraverso le loro lobby e si sono ormai auto-esentate non solo dal pagamento delle tasse ma anche dal rischio di fallire (“too big to fail”); la qualità della vita è diminuita, l’obesità e l’abuso di antidepressivi sono epidemici; le occupazioni sono quasi esclusivamente precarie, le vacanze sono brevissime o del tutto assenti, il numero di persone costrette a fare secondi lavori serali o festivi è in aumento; l’assistenza medica e l’istruzione di qualità sono quasi interamente private e a costi astronomici.
Per uscire da questo baratro, ed evitare a chi ancora ne sia fuori di precipitarci, non resta che una strada: difendere lo stato, ridare autorità agli stati. Occorre prendere atto che la globalizzazione è un imbroglio e che il capitalismo genera progresso solo se subordinato alle esigenze collettive e solo quando soggetto a precisi vincoli e a continue verifiche. Bisogna accorgersi che il settore pubblico, persino quando imperfetto e tanto più quando virtuoso (come nei paesi del nord Europa), è l’unico argine allo strapotere dei ricchi e delle corporation; che solo quando a ogni cittadino siano garantite dignitose condizioni di esistenza, solo allora la gente pretende il rispetto dei propri diritti e i lavoratori hanno il tempo e la forza di negoziare migliori salari e benefici. Non è un caso che gli impiegati di McDonald’s in Danimarca siano di media pagati venti dollari all’ora e in America meno di nove.
Il 2015 potrebbe essere decisivo. L’Italia può continuare a scivolare sulla china dell’indifferenza e dell’irresponsabilità, illudendosi che rottamando tutto si attivino magicamente nuove energie, una nuova determinazione – l’antico mito del fuoco purificatore. Oppure può ricordarsi delle tradizioni e dei valori che l’avevano resa un paese dove era piacevole vivere e ridare a essi importanza: un processo possibile ma faticoso, e che bisogna compiere in prima persona e insieme, senza poterlo delegare al primo salvatore della patria che ci impongano i talk show e i loro padroni.
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