Da due giorni a questa parte, a New York, noi italiani siamo sotto tiro. Ed è colpa dell’olio d’oliva, o meglio, del New York Times. Qui negli USA siamo abituati a sentirci fare complimenti per i nostri prodotti enogastronomici, ma da sabato sera, basta essere italiani per sentire commenti di amici e conoscenti che giurano che non compreranno più olio made in Italy. Tutto per via di un’infografica animata con cui l’edizione online del prestigioso quotidiano americano ha voluto “smascherare” trucchi, truffe e sofisticazioni dietro il mercato dell’olio d’oliva italiano negli USA. In 15 vignette, la testata racconta come parte dell’olio d’oliva che arriva in Italia negli Stati Uniti sia il risultato di un mix di oli diversi, non tutti italiani e non tutti d’oliva.
La scoperta dell’acqua calda, diranno molti italiani abituati in questi anni alle cronache che riportano di produttori in malafede che mettono sul mercato bottiglie non propriamente “vergini”. E lo diranno anche i nostri lettori che avranno seguito le precedenti inchieste de La VOCE sull’argomento. Ma il problema è quanta “parte” dell’olio il Times mette sotto accusa e come.
Che della questione si parli sui media, non può che essere un bene e siamo i primi a pensarlo. L’informazione è vitale perché il vero, autentico olio italiano venga conosciuto, apprezzato e protetto. Ma informazione corretta, si intende.
A fare la differenza, stavolta, non è soltanto il prestigio della testata (che ovviamente conta perché nel giro di due giorni il pezzo ha fatto il giro degli Stati Uniti), ma le modalità con cui l’informazione viene presentata al lettore. Spiace dirlo, ma stavolta il New York Times ha dato prova di cattivo giornalismo, giocando sull’ambiguità e facendo confusione tra piani diversi.
Andiamo con ordine. Nelle prime cinque vignette dell’infografica, il giornale (l’animazione è firmata da Nicholas Blechman, art director del Times) si limita a dire che non tutto l’olio italiano è fatto da olive italiane. Cosa vera. Niente da obiettare. È nella sesta vignetta che arriva il primo stralcio di informazione incompleta. L’infografica spiega che l’Italia è il più grande importatore di olio d’oliva al mondo. L’informazione non è falsa, ma è qui che, nella narrativa del New York Times, ci si aspetta che il lettore inizi a drizzare le antenne: l’Italia è il primo importatore? Ma come, non dovrebbero produrlo loro l’olio? Quello che il giornale non dice è che l’italia è anche uno dei più grandi consumatori di olio d’oliva al mondo e che la produzione italiana non è sufficiente a coprire il consumo interno, figuriamoci le esportazioni.
Ma è nella settima vignetta che il giornale inizia a mischiare le carte. La slide racconta infatti che, mentre oli non italiani arrivano nei nostri porti, oscuri manigoldi fanno arrivare anche oli di semi e simili con cui tagliano il prodotto fatto da reali olive per poi etichettarlo come olio d’oliva. E va avanti dicendo che il prodotto viene poi corretto con betacarotene e clorofilla (slide numero 9).
“Qui si mischiano due piani completamente diversi – ci spiega Marco Petrini, presidente Nord America del marchio Monini, sponsor del nostro giornale (non ne facciamo mistero), cui siamo andati subito a chiedere un commento sul polverone sollevato dal giornale newyorchese – Perché, mentre quando si parla di tagliare l’olio d’oliva con oli di semi, o addirittura di aggiungerci delle sostanze chimiche, quella è sofisticazione ed è una vera e propria truffa e come tale viene perseguita (e tra l’altro non è cosa che avviene solo da noi), quando parliamo di mescolare olive di diverse provenienze il discorso è diverso. Io posso benissimo prendere olive o oli non italiani, ma pur sempre di qualità, e farne un olio extravergine. Avrò comunque un prodotto di qualità. L’importante è che io lo indichi in etichetta”.
La stessa cosa ce l’aveva detta Giovanni Colavita, CEO per il Nord America dell’omonima azienda dell’olio, che proprio pochi mesi fa ha lanciato una linea di oli extravergini non italiani, chiarendo che non c’è nulla che non va nell’olio spagnolo o greco: a fare la differenza è che l’Italia ha un’enorme varietà di olive con cui riesce a fare blend più strutturati. “La filosofia – ci aveva detto allora Colavita – deve essere quella della trasparenza, se si vuole educare il consumatore”.
E in trasparenza non ha brillato certo il New York Times che nella slide 10 conclude la storiella sostenendo che, a fine filiera, l’olio – fatto con materie prime di diverse provenienze, tagliato con oli non di oliva e adulterato con sostanze chimiche – verrebbe tranquillamente etichettato come made in Italy perché la legge lo consente. Ma di quale legge parla? Il giornale starebbe sostenendo – almeno così pare a noi – che la legge (italiana? Non lo dice, in verità, ma questo è quello che lascia capire) consentirebbe di etichettare come made in Italy non soltanto qualcosa che made in Italy non è (e a noi risulta tuttavia che l’Europa abbia legiferato in proposito di etichettature dell’olio, stabilendo che i blend di olive o oli provenienti da paesi diversi debbano essere dichiarati in etichetta), ma qualcosa che è frutto di vera e propria contraffazione e che quindi rientra nell’ambito dell’assoluta illegalità. Nelle successive slide il NYT si ricorda di specificare che le forze dell’ordine italiane cercano di intercettare questi criminali ma, poi aggiunge, i malfattori godono di connessioni politiche e raramente vengono perseguiti. E qui siamo proprio all’insulto. Come dire: vi aspettate che in Italia – no dico, in Italia – con la classe politica che si ritrovano, si faccia realmente qualcosa per prevenire questo fenomeno?
Chi ci va a rimettere, conclude il giornale, è il consumatore americano. Il risultato di tutta questa perversa filiera, spiega l’infografica nella vignetta numero 11, è che il 69% dell’olio in vendita negli USA, è contraffatto. Con questi dati, non sorprende che i consumatori americani siano andati nel panico. Ma quello che il giornale dimentica di dire è che quel numero (69%) non solo viene da un rapporto uscito nel 2010 che fu quasi immediatamente screditato dalla comunità scientifica, ma che si riferisce a tutto il complesso dell’olio importato negli USA. Il giornale, ancora una volta, non chiarisce, lasciando spazio a libere interpretazioni: il lettore pensa si stia parlando del solo olio italiano in vendita negli USA (magie delle strategie di comunicazione!). Ma non basta, nel rapporto dell’UC Davis Olive Center (centro di ricerca dell’University of California) da cui quel numero è tratto, non si parla di contraffazione, ma di oli che non soddisfano gli standard IOC/USDA (International Olive Council e US Department of Agricolture) per l’extravergine di oliva, in quanto presentano difetti quali – e citiamo dal rapporto – “rancido, stantio, muffoso e sono stati classificati a un basso livello di ‘verginità’”.
Come spiega ancora Marco Petrini: “Hanno preso gli oli dagli scaffali dei supermercati e quelle bottiglie potevano essere lì da chissà quanto tempo. Magari sono prodotti costosi che il consumatore medio americano non compra e che rimangono in negozio per mesi, anni. E l’olio quando invecchia si rovina, non è una novità. Ma su questo il produttore non ha alcun tipo di controllo”. Tanto per aggiungere la ciliegina sulla torta, semmai fosse necessario, conviene ricordare che lo studio in questione è stato finanziato da: Corto Olive, California Olive Ranch (due produttori californiani di olio) e dal California Olive Oil Council.
Abbiamo sentito anche Pier Paolo Celeste, dirigente dell’ICE New York che stava avendo una giornata affannosa per via del caos generato dall’infografica: “Non hanno fatto una cosa seria – ci ha detto – Quello non è neanche un articolo. Per me rimane un fumetto. Tanto che la North American Olive Oil Association ha immediatamente mandato una lettera al New York Times, che mi è stata girata per conoscenza, definendo quel contenuto diffamatorio di quello che è un prodotto di qualità. Hanno anche chiarito che loro compiono dal 1989 controlli accuratissimi su tutto l’olio che arriva sul mercato USA e che non hanno alcun riscontro di questa cosa”.
Celeste specifica poi che l’Italia, con grande schieramento di forze dell’ordine, combatte ogni tipo di contraffazione che, comunque, purtroppo, esiste ma che è modus operandi anche di molte aziende non italiane che giocano con l’Italian sounding (prodotti dal nome che richiama l’Italia ma che l’Italia non l’hanno vista nemmeno in cartolina). “L’olio d’oliva italiano è il principale olio d’oliva importato negli USA – riprende il direttore dell’ICE – Copre il 51% dell’import e rappresenta un business da 500 milioni di dollari. Forse qualcuno pensa che, se riuscisse a metterci i bastoni tra le ruote, potrebbe prendersi una quota di quel mercato. Ma io non credo, perché i consumatori sono intelligenti e sempre più educati a riconoscere il prodotto di qualità. Ed educarli è e resterà il nostro impegno”.
Semmai è la legge americana che dà spazio ad ambiguità e fraintendimenti perché non prevede regole abbastanza restrittive sull’etichettatura. E, mentre molti produttori italiani che non possono che avere interesse ad evidenziare la genuinità del proprio prodotto, specificano in etichetta dove e con quali materie prime l’olio è stato realizzato, molti altri (spesso non italiani) si affidano a diciture vaghe (come abbiamo in passato raccontato). E tuttavia la superficialità (per non voler pensare di peggio) con cui il New York Times ha raccontato questa storia danneggia anche chi fa un prodotto di qualità e che con la qualità cerca di competere su un mercato difficile come quello americano.
Raccontare un fenomeno – pur esistente – all’interno di una qualsivoglia industria, dando l’idea che tutta l’industria sia corrotta, non è giornalismo, ma terrorismo.
Nell’ultima slide dell’infografica, il giornale dichiara la fonte delle informazioni riportate: Tom Mueller, giornalista, esperto di olio, autore del blog Truth in Olive Oil. Non vogliamo certo fare lezione di giornalismo al New York Times, ma da quando in qua si basa un contributo ad alto contenuto informativo su un’unica fonte e tanto più su una fonte giornalistica? Abbiamo provato a contattare Tom Muller, ma non abbiamo ottenuto risposta. Pare però abbia fatto sapere via email al sito Olive Oil Times di non sapere nulla del pezzo pubblicato sul Times e di essere sconcertato che fosse stato fatto il suo nome. Tuttavia, riporta lo stesso Olive Oil Times, Mueller aveva scritto un tweet di congratulazioni all’autore dell’infografica subito dopo la pubblicazione. Il tweet è ora sparito dalla bacheca di Mueller.
La storia inizia a somigliare a un giallo e vi promettiamo di continuare a seguirla, tanto più che veniamo a sapere che Mueller mercoledì 29 terrà una conferenza stampa al Parlamento Italiano per presentare il suo libro, Extraverginità. Il sublime e scandaloso mondo dell’olio d’oliva, e parlare delle problematiche legate alla difesa dell’olio extravergine italiano. All’evento parteciperanno, tra gli altri, l’onorevole Colomba Mongiello (autrice della legge salva olio con cui l’Italia ha deciso di tutelare questo importante pezzo di made in Italy) e Milena Gabanelli, giornalista e conduttrice della trasmissione Report. Su Mueller ci giungono anche altre voci che, se confermate, metterebbero tutta la vicenda sotto una nuova luce. Ma sono solo voci, per ora, e noi non facciamo certo giornalismo sulle dicerie. Ma approfondiremo e vi faremo sapere.