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Economia
December 31, 2013
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December 31, 2013
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Wall Street brinda all’anno dei rialzi, ma Main Street resta disoccupata

Francesco SemprinibyFrancesco Semprini
Time: 5 mins read

Cosa resterà di questo 2013? Soprattutto, cosa dovremmo o vorremmo aspettarci dal 2014? Nell’imminenza del «New Year's Eve», si manifesta in tutta la sua esuberanza il fisiologico bisogno di tirare delle somme, ovvero di fare dei bilanci sull’anno che si chiude, e, in vista di quello in arrivo, di azzardare previsioni o avanzare audaci, quanto legittime, pretese. 

Economania non si tira indietro a questa kermesse da veglione interlocutorio di fine anno. Restringendo (per modo dire) il campo congetturale all’universo economico, occorre dire che per gli Stati Uniti il 2013 è stato un anno per certi versi significativo. Nel contesto di una crescita globale che ha registrato velocità superiori rispetto a quanto i guru degli osservatori si attendevano all’inizio dell’anno, gli Usa hanno inviato segnali importanti. La locomotiva a stelle e strisce sembra aver acquistato la spinta necessaria per una ripresa sostenuta: il pensiero va all’ultima revisione del Pil del terzo trimestre dell’anno rivista a +4,1% rispetto al 3,6% della precedente lettura. Un dato ben superiore alle attese e che rappresenta il rialzo più pronunciato dal quarto trimestre 2011, e il secondo maggiore dalla metà del 2009. E il prossimo anno?

La Federal Reserve prevede una crescita compresa tra il 2,8% e il 3,2%, ed è proprio sulla base di queste rosee prospettive che Ben Bernanke e i governatori della Banca centrale Usa, che in questi giorni ha compiuto i primi cento anni di vita, hanno deciso di rallentare gli aiuti non convenzionali riducendo l’acquisto di titoli sul mercato da 85 a 75 miliardi di dollari. Un’inversione di tendenza storica dopo cinque anni di aiuti e 4 mila miliardi spesi dalla Fed per gonfiare il salvagente all’economia del Paese, e che arriva alla vigilia del passaggio di testimone tra Bernanke e la «colomba» Janet Yellen.

Un altro elemento che depone a favore del 2014, anche perché la temuta riduzione del «Quantitative easing» non ha avuto il dirompente effetto sui mercati finanziari come professavano le cassandre di Wall Street. I mercati anzi si affacciano al nuovo anno alzando il calice visto che sono coloro che hanno maggiormente beneficiato di questa prima fase della ripresa post-crisi. L’azionario Usa è salito nel 2013 del 25%, con un boom di Ipo, ben 250 da un po' tutti i settori produttivi del Paese, la gran parte vincenti come ha dimostrato il ruggito travestito da cinguettio di Twitter.

Il Dow Jones chiude il 2013 con un nuovo record, per la prima volta da 14 anni a questa parte mettendo la parola fine quello che è stato definito il «decennio perso» di Wall Street, quello della bolla delle dot.com, degli attentati dell’11 settembre, dei grandi scandali «Corporate» come Enron, della bolla immobiliare e dello tsunami finanziario per finire. Insomma il 2013 ha preparato il terreno per alla rinascita, come ha sottolineato il presidente Barack Obama nella conferenza stampa di fine anno: «Il 2014 sarà l’anno del riscatto economico».

Manca però qualcosa, un tassello senza il quale l’idilliaco mosaico economico è condannato a rimanere incompiuto. Cosa? L’occupazione. A che punto è l’America del lavoro? Il tasso dei «senza posto» è sceso a novembre al 7%, un bel flesso dopo i picchi della crisi, ma una percentuale ancora lontana da quella soglia minima del 6,5% sotto la quale la Fed valuterà l’ipotesi di manovre sul costo del denaro. Accantonando per un attimo i tediosi indicatori economici, basti pensare che a New York, il numero delle persone che si rivolgono agli «shelter», ovvero ai centri di accoglienza per un letto o un pasto caldo, è cresciuto a livelli mai visti dai tempi della Grande depressione. E spesso si tratta di persone della classe media, famiglie della borghesia lavoratrice, o meglio ex lavoratrice. L’impoverimento sociale è dovuto infatti proprio alla mancanza di lavoro, perché in realtà sino ad oggi della ripresa ne hanno beneficiato pochi eletti, la grande impresa, la grande finanza, la grande tecnologia, ma non certo Main Street, ovvero la comunità di piccole e medie imprese che crea la maggior parte di occupazione anche qui negli Stati Uniti.

Lo spiega bene un certo Andrew Huszar, detto «il pentito della Fed». E’ stato direttore del primo programma Qe, un bazooka monetario da 1.250 miliardi di dollari messo a punto quasi un lustro fa per aiutare l’economia affondata dalla crisi. Oggi è professore universitario, si pente della Fed e attacca Wall Street, dove ha lavorato per anni nel tentativo (fallito) di cambiarne l’approccio. Chiede scusa agli americani per il suo ruolo in quel programma creato, spiega, per sostenere in particolar modo Main Street, ovvero le Pmi. Obiettivo sacrificato sull’altare di Wall Street, tanto da ritenere veritiere le stime di alcuni addetti ai lavori secondo cui il ritorno sui 4 mila miliardi spesi dalla Fed in cinque anni è stato di appena 40 miliardi, lo 0,25 per cento. Perché tutto questo. «Per le interferenze di Wall Street sulla Fed – dice – che minano l’indipendenza su cui si fonda la Banca centrale». Da brivido.

C’è chi tenta di screditarlo dandogli del rinnegato e per di più pure ingrato, ma le sue parole fanno maladettamente rima con queste: «Il tasso di disoccupazione sarebbe dovuto scendere ben di più di quanto è avvenuto sino ad oggi. I governi avrebbero dovuto facilitare la crescita e l'accesso al credito di Main Street, ovvero delle piccole e medie imprese, e degli individui, perché la ripresa ha per ora escluso o riguardato solo marginalmente la maggior parte della popolazione». Il punto è che a dirle non è un pentito, un leader populista o un sindacalista. A pronunciarle è Duncan Niederauer, amministratore delegato del New York Stock Exchange.

Cosa? Il capo di Wall Street dice che i governi devono badare di più a Main Street? «Si certo – ribadisce – Lo dico sempre nei miei interventi e continuerò a sostenerlo alla sfinimento, sino a quando i politici mi staranno a sentire». Il messaggio è chiaro, ma li suoi  destinatari che fanno?

Obama è ai minimi assoluti in termini di consenso, e il Congresso gode dell’approvazione del solo 9% degli americani, nove su dieci ne volevano uno nuovo sotto l'albero di Natale. Non male specie in vista delle elezioni di metà mandato del prossimo novembre.

Cara Washington attenzione, sbrighiamoci a risolvere questa bega dell’innalzamento del tetto del debito prima che si ripeta il tormento del default, e concentriamoci sui buoni propositi per il nuovo anno: il 2014 deve essere all'insegna del lavoro, quello reale. Tanti auguri.
 

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Francesco Semprini

Francesco Semprini

Francesco Semprini è inviato internazionale per La Stampa. Nato e cresciuto a Roma si è trasferito vent'anni fa a New York dove ha perfezionato gli studi economici, per poi occuparsi di politica e finanza americana. Ha trascorso l'ultimo decennio raccontando conflitti e crisi geopolitiche da tutto il mondo. Tra le altre quelle in Iraq, Afghanistan, Siria, Venezuela, Libano, Kosovo, Libia, Pakistan, Haiti. E' corrispondente presso le Nazioni Unite da dove scrive di relazioni diplomatiche. Francesco Semprini is a long time international correspondent with La Stampa. Born and raised in Rome he moved to New York twenty years ago. He spent the last decade covering geopolitical crises and conflicts around the world. Among the others in Iraq, Afghanistan, Syria, Venezuela, Lebanon, Kosovo, Libya, Pakistan, Haiti. He is based at the United Nations from where he writes about current and diplomatic affairs.

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