NEW YORK. Abbiamo deciso di dare spazio a questa nuova “Voce di New York” partendo da un anniversario, una ricorrenza di un evento a dirla tutta infausto, ma che inconfutabilmente ha segnato le sorti degli Stati Uniti prima, e la storia del Pianeta in una fase successiva. Parliamo del quinto anniversario del fallimento di Lehman Brothers. Era il 15 settembre 2008 quando la quarta sorella delle “investment bank” di Wall Street, piegata dall’avidità speculativa e abbandonata al suo destino dalle istituzioni di Washington, dichiarava bancarotta segnando l’avvio della fase più acuta dello tsunami finanziario.
Da quel momento è un susseguirsi di sciagure: la contrazione del credito, la crisi imprenditoriale, la recessione peggiore dai tempi della Grande depressione e, in ultima istanza, la voragine del mercato occupazionale. Circa 8,8 milioni di posti di lavoro bruciati e oltre 19 mila miliardi di dollari di ricchezza delle famiglie andati in fumo. Oltre “billion” di aiuti a pioggia in salvataggi vari. Dopo anni di prosperità, iniziava per l’America la notte più lunga del Dopoguerra, quella dei volti segnati dei dipendenti di Lehman costretti a riporre i sogni di una vita negli scatoloni stretti tra le braccia con cui, come zombie di Romero, varcavano per l’ultima volta il portone della ormai defunta banca.
Immagini indelebili che nessuno dimentica, in primis Barack Obama, allora impegnato in un serrato confronto elettorale per la Casa Bianca, vinto poco dopo anche con la complicità del malessere generato dal terremoto finanziario. Così a un lustro di distanza, vien da chiedersi: «A che punto è la crisi?».
Limitando le considerazioni alla realtà americana, una risposta l’ha voluta fornire lo stesso presidente con la pubblicazione di un rapporto, e un discorso a seguire, nel quale ha spiegato che assai è stato fatto dall’inizio della “tempesta perfetta”, ma che molto altro c’è da fare. In particolare sul lato della crescita e dell’occupazione. Certo si è ben lontani da quel meno 8% che cinque anni fa cadenzava il Pil a stelle e strisce, ma a conti fatti oggi ci troviamo dinanzi a una ripresa zoppa, con un Prodotto interno ancora ballerino, un manifatturiero debole e una disoccupazione che seppur scesa al 7,3%, vede crescere sempre di più precari e part-time, mentre il numero delle persone che cercano lavoro è ai minimi degli ultimi 35 anni.
L’inquilino della Casa Bianca la “butta in politica”, accusando i repubblicani di voler apportare tagli alla spesa che non aiutano l’economia, e di non collaborare sull’innalzamento del tetto del debito con il rischio di causare un “default”, come stava accadendo due anni fa. Certo lui ha le sue ragioni, ma a dire il vero potrebbero non essere solo queste le ragioni.
Ben inteso, a sentire le banche la crisi è bella che finita: sedici trimestri consecutivi di rialzi (su base annuale) dei profitti netti, con 42,2 miliardi di dollari incassati dal comparto nei soli tre mesi terminati il 30 giugno. Insomma, lì dove la crisi era nata, o meglio era stata generata, a colpi di mutui facili (i temibilissimi subprime), e derivati (i meno rinomati ma altrettanto letali “credit default swap”, puntate su ribassi di titoli e debiti travestite da assicurazioni), ora è tornata la prosperità. Ma non è tutto oro ciò che splende. Vediamo perché.
Il «botto» di cinque anni fa sembra non aver insegnato molto visto che l'America, ancora orfana a dire il vero di una complessiva e organica riforma finanziaria, sta tornando a indebitarsi in maniera compulsiva, azzardando su scommesse ad alto rischio simili a quelle che hanno causato la “tempesta perfetta”. L'indicazione arriva da Moody’s secondo cui la fase del “deleveraging” da parte delle aziende, ovvero della riduzione dell’indebitamento più oneroso e pericoloso, è ormai bella che archiviata. I “junk bond”, le obbligazioni spazzatura, sono tornate a rappresentare il 25% dell’emissione di titoli a reddito fisso della Corporate America. L'esposizione complessiva delle imprese è salita a 6 mila miliardi, circa il 60% in più rispetto alla fase precedente la crisi, complice la domanda degli investitori che, gioco forza, sono alla ricerca di rendimenti più alti con titoli o strumenti più rischiosi. Il punto è che lo stato di salute delle aziende è ben peggiore rispetto al 2007, date le generali condizioni di mercato. C’è una maggiore sensibilità alle variazioni dei tassi di interesse e soprattutto c’è un quadro monetario espansivo assicurato dagli interventi straordinari della Federal Reserve. Che non può certo durare in eterno visto che le reiterate manovre volute dal presidente uscente Ben Bernanke rischiano alla lunga di rendere il sistema “dopato”, incapace di sostenersi da solo.
Questo profila all’orizzonte un cambio di rotta, seppur graduale, che con tutte le incertezze del caso in termini interni e internazionali, e con l'incognita che grava sul futuro della leadership della Banca centrale americana: chi guiderà la Fed in questa ardua impresa?
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