Finora ho cercato di dare una visione della ricerca italiana, per far vedere i livelli di eccellenza che ha raggiunto. Ho volutamente tralasciato i casi di malgoverno scientifico perché purtroppo questi sono sotto gli occhi di tutti e mi sembrerebbe fuorviante riportarli.
Vorrei invece passare a un altro punto della questione: come trasferire i risultati della ricerca alla società? In effetti, non basta fare un’eccellente ricerca, se questa, di fatto, non produce poi una ricaduta sulla società in termini di conoscenza e in termini economici.
Innanzi tutto sfatiamo subito il luogo comune della ricerca così detta pura e della ricerca applicata, l’una si avvale dell’altra e viceversa. La ricerca va vista in toto perché comunque produce direttamente o indirettamente un avanzamento tecnologico, economico e, se ben utilizzata, sociale della società. E’ solo una questione di tempi ma ciò che, ad esempio, ha portato alla scoperta dei fenomeni quantistici, prima o poi, potrà essere utilizzato per un’applicazione utile all’uomo. Basti pensare ai calcolatori quantistici che, in un prossimo futuro, potranno diventare oggetti che utilizzeremo quotidianamente: la barriera dei 10 micrometri, necessaria a sviluppare i calcolatori quantistici può essere raggiunta tra una decina di anni, dato che già i nuovi chip hanno uno spessore di 22 micrometri.
Certamente gli Stati Uniti hanno maggiori possibilità di utilizzare i risultati della ricerca, sia per effetto del maggior impegno economico sia per la grandezza del suo mercato. L’Europa sta cercando di controbattere, ma le scelte operate non sembrano proprio all’altezza della sfida mondiale, vuoi per gli interessi localistici, vuoi per l’inadeguatezza delle risorse. Un altro aspetto importante è dato dalla valorizzazione delle persone: laddove questo viene attuato si hanno risultati ragguardevoli.
Innanzi tutto va sfatato il concetto che la ricerca privata sia meglio. Se non c’e’ un’iniezione economica cospicua da parte dello stato è impossibile sviluppare una ricerca adeguata. In un bel libro intitolato “The Entrepreneurial State”, Mariana Mazzucato, parla del successo dell’Apple e chiarisce che senza gli investimenti fatti dallo stato per sviluppare le tecnologie, neppure il “folle” Steve Jobs sarebbe stato in grado di creare i prodotti che hanno fatto di Apple un leader mondiale.
Il successo di Jobs è correlato a tre capacità: riconoscere le tecnologie emergenti dotate di un grande potenziale; applicare competenze ingegneristiche complesse che integrano con successo le tecnologie emergenti riconosciute; mantenere una visione aziendale chiara, fondata su prodotti orientati al design e alla massima soddisfazione degli utenti.
Prima di essere il leader attuale, Apple ha ricevuto enormi sostegni dal governo quali: investimenti diretti durante le prime fasi di creazione dell’impresa; accesso a tecnologie che sono il risultato delle più importanti ricerche dei programmi del governo: iniziative militari, appalti pubblici, progetti di istituti di ricerca pubblici, sostenuti da fondi statali o federali; politiche fiscali, commerciali e tecnologiche che hanno permesso di sostenere gli sforzi innovativi durante le prime fasi in cui le società non hanno ancora un mercato.
Si può fare le stesse cose anche in Italia? Certamente sì. Mancano tuttavia i manager, persone che devono essere formate a scegliere e che in Italia drammaticamente non ci sono. Manca soprattutto un dialogo tra ricerca e industria che non sia di puro profitto speculativo. Ho assistito alla crescita di piccole industrie che, utilizzando i risultati della ricerca, si sono posizionate a livello internazionale, ma non ho assistito a un vero e proprio salto di qualità, come per Apple, perché appena le dimensioni diventavano troppo grandi il potere politico tentava di condizionarle: proprio nel momento di passaggio in cui è più necessario il supporto dello Stato. Sul versante della ricerca ho visto ricercatori spendere una vita per affermare la propria ricerca e contemporaneamente essere espropriati del loro lavoro da sodali della politica, incapaci di vedere di là del proprio tornaconto. E’ un aspetto desolante che non fa giustizia delle capacità dei ricercatori italiani.
Prima di tutto è necessario che si riorganizzi la ricerca italiana in modo più razionale, e poi si incentivino i rapporti tra industria e ricerca utilizzando gli attuali poli di ricerca in cui il trasferimento dalla ricerca all’industria sia fatto lavorando assieme, nello stesso posto. La decadenza industriale italiana coincide con la perdita delle grandi industrie. La piccola e media industria non è in grado di sopperire alla mancanza di grandi industrie. E’ quindi arrivato il momento che le piccole industrie si consorzino e l’innovazione dei laboratori di ricerca diventi patrimonio della piccola e media industria per creare quel circuito di innovazione e crescita, da studiare caso per caso, necessaria a far ripartire l’economia. E’ un percorso difficile e duro, ma bisogna farlo immediatamente, anche in vista di ricuperare tutti quei giovani ricercatori che sono andati via dall’Italia. Incentivare economicamente il rapporto industria ricerca senza penalizzare la ricerca dovrebbe essere parte di una politica economica di medio-lungo periodo di un paese che non vuole essere ulteriormente declassato.