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L’ambizioso traguardo degli Usa: ridurre le emissioni di gas serra del 50% entro il 2030

Con l'inviato Speciale per il Clima, John Kerry, Joe Biden vuole essere il traino di una rivoluzione verde e organizza un summit con i leader mondiali

Sonia TurrinibySonia Turrini
Time: 5 mins read
Una foto della Terra vista da un satellite nello spazio (POT/UN)

In occasione della Giornata Mondiale della Terra, che si celebra il 22 Aprile, il presidente Biden ha organizzato un summit di leader mondiali, invitando 40 capi di Stato e Governo, da Putin a Draghi a Xi Jinping, ad un meeting per discutere il cambiamento climatico e dell’urgenza di prendere drastiche misure per contrastarlo.

Non dovrebbe trattarsi solo di parole, questa volta: l’evento serve anche da palcoscenico al Presidente per annunciare gli obiettivi di taglio di emissioni inquinanti che gli Stati Uniti si propongono per il 2030. Biden, infatti, si è riunito agli accordi di Parigi appena concluso il suo giuramento lo scorso gennaio, dopo l’abbandono temporaneo dei precedenti quattro anni voluto da Trump, ma gli USA non hanno ancora ufficialmente annunciato il loro cosiddetto Nationally Determined Contribution, cioè il target nazionale di riduzione dell’inquinamento per contribuire al raggiungimento degli obiettivi di Parigi.

Il Presidente Joe Biden (Foto da Twitter White House)

Secondo indiscrezioni del Washington Post confermate da tre diverse fonti, Biden ed il suo Inviato Speciale per il Clima John Kerry non hanno intenzione di risicare o tirare la corda, e sono pronti ad annunciare oggi un ambiziosissimo traguardo: ridurre le emissioni degli USA del 50% entro il 2030. La speranza del presidente è che, raccogliendo i leader mondiali attorno allo stesso tavolo virtuale per presentare un piano radicale, e rendendo chiaro che la prima economia del mondo è pronta a trasformare profondamente il suo modo di vivere, dalle automobili alla costruzione di edifici, dalla produzione di energia a quella di cibo e beni, possa nascere una spinta ad arrotolarsi figurativamente le maniche tutti insieme.

È realmente un obiettivo rivoluzionario, uno sforzo quasi raddoppiato rispetto a quello che propose il presidente Obama. Tuttavia, secondo gli esperti è un traguardo arduo ma raggiungibile, e Biden può già contare sul supporto di una parte consistente del settore privato: il piano infatti è in linea con quanto proposto da grandi gruppi tra cui Google, Philip Morris e McDonald’s. “I segnali sono cristallini, la scienza è innegabile e il costo della mancanza di azione continua ad aumentare”, ha detto Biden.

L’energia pulita, come l’energia eolica, è un elemento chiave per raggiungere le emissioni nette zero (Unsplash/Appolinary Kalashnikova)

Rimangono due problemi a questo punto: come raggiungere l’obiettivo in primis, e in secondo luogo come convincere gli altri paesi del mondo che non è un bluff, e gli USA sono davvero all in. Sulla credibilità di Biden rispetto al tema del cambiamento climatico, infatti, pesano gli eventi dell’ultimo decennio.

L’unica modalità tangibile di imprimere un cambiamento definitivo nella rotta degli USA sarebbe con un piano di leggi incisivo che sia approvato da Camera e Senato ma, come è purtroppo tristemente noto, con la regola del filibuster il Senato è un ostacolo piuttosto difficoltoso da superare. Senza leggi approvate dai due rami del Parlamento Biden non potrebbe che governare la minaccia del cambiamento climatico mediante ordini esecutivi, tuttavia l’esperienza di Obama, la cui decisione di entrare negli accordi di Parigi e politiche climatiche sono stati ribaltati con uno svolazzo di penna del suo successore, ma anche l’esperienza di Trump, le cui volontà sono state altrettanto scaraventate dall’arrivo di Biden stesso, insegnano al resto del mondo che l’impegno degli Stati Uniti in questa fase politica dura tanto quanto l’inquilino della Casa Bianca.

Iceberg in Bellingshausen Sea, Antarctica. (WMO/Gonzalo Bertolotto)

Insomma, se il presidente vuole essere realmente il traino di una rivoluzione verde deve dimostrare di saper (e voler) collaborare con la controparte politica su questo tema. Sfida ardua a giudicare dalle dichiarazioni a caldo dei repubblicani: “il popolo americano non ha bisogno di promesse arbitrarie o ordini dei Democratici che potrebbero danneggiare la nostra economia senza risolvere il problema centrale che sono le emissioni globali”, ha detto il leader repubblicano della Camera McCarthy. Gli fa eco il senator Barrasso, repubblicano del Wyoming: “impegnare unilateralmente l’America in una promessa di emissioni drastica e dannosa” punirebbe l’economia mentre Cina e Russia, principali avversari politici, “continueranno ad aumentare le loro emissioni a piacimento”. L’affermazione di Barrasso è almeno parzialmente falsa: la Russia si è impegnata a tagliare le sue emissioni del 30% entro il 2030. Xi Jinping ha invece reiterato che la Cina, tasto dolente degli accordi poiché è il primo inquinatore del mondo, cercherà di raggiungere il suo picco di emissioni entro il 2030, per poi decrescere mirando all’impatto zero entro il 2060.

Altri hanno seguito Biden alzando la posta e ponendo per i loro paesi nuovi traguardi: Trudeau ha impegnato il suo Canada a tagliare le emissioni fino al 45% entro il 2030, rispetto al 30% a cui si era precedentemente limitato. Si è unito anche il Giappone, che si propone di ridurre le emissioni del 46%. L’Unione Europea aveva negli ultimi giorni, già prima di questo meeting, affermato il desiderio di diventare il primo continente ad impatto zero del pianeta, dandosi il traguardo di ridurre addirittura del 55% le emissioni entro il 2030. Ha usato parole di speranza il presidente del consiglio Draghi, che ha spiegato che l’Italia “è un Paese bellissimo ma molto fragile. La battaglia per il cambiamento climatico è una battaglia per la nostra storia e per il nostro paesaggio”, ma che “abbiamo fiducia sul fatto che insieme possiamo vincere questa sfida”.

Guida ancora la lista dei benintenzionati la Gran Bretagna di Boris Johnson, che con il suo obiettivo di tagliare fino al 68% delle emissioni entro il 2030 non teme rivali in questa nuova corsa al rialzo. Ha commentato con scetticismo il primato di BoJo Kate Blagojevic, alla guida di Greenpeace UK, secondo cui il summit ha visto più obiettivi che “una competizione di tiro con l’arco”, ma questa buona volontà deve essere seguita da azioni politiche altrettanto forti. “Boris Johnson può uscire da questo summit molto soddisfatto, con la Gran Bretagna ancora prima della lista internazionale sul piano degli obiettivi teorici”, ha detto, “ma non ha ancora un piano credibile per eliminare i combustibili fossili dalle nostre case”.

Per ora sembra che a capo delle operazioni per l’amministrazione Biden sia Gina McCarthy, consigliere del presidente sulle questioni climatiche, che starebbe stilando bozze di proposte di legge per regolamentare in particolare il settore automobilistico già a partire dall’estate. D’altra parte, il progetto di infrastrutture da 2.3 triliardi proposto da Biden prevede un investimento massiccio nella costruzione di colonnine di ricarica per auto elettriche, oltre che nella transizione all’energia solare ed eolica.

Il Segretario Generale ONU Antonio Guterres, nel dare il benvenuto ai leader partecipanti al summit, ha parlato proprio della necessità che a livello globale si faccia quello che Biden vuole proporre per gli USA: “un decennio di trasformazione” per evitare l’”abisso”. Ha dettato chiare linee guida per i leader: imporre sanzioni sui combustibili fossili, eliminare qualunque forma di incentivo all’energia non rinnovabile, investire nelle infrastrutture e nel rinnovamento sfruttando il “covid reset”.

Come sempre fa in queste occasioni, Guterres ha ricordato ancora che la responsabilità pesa sulle spalle dei paesi più sviluppati, che dovrebbero abbandonare definitivamente il carbone entro il 2030, mentre per i paesi in via di sviluppo la scadenza è prolungata fino al 2040. Ha anche tirato le orecchie ai grandi della terra, ricordandogli che al G7 che si terrà questo giugno si aspetta mantengano, finalmente, la promessa di 100 miliardi di dollari per contribuire alla crescita sostenibile dei paesi in via di sviluppo, soldi finora solo raccontati ma mai realmente raccolti e consegnati.

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Sonia Turrini

Sonia Turrini

Sono laureata in psicologia, attualmente impegnata in un PhD in Neuroscienze a Bologna. Sono cresciuta con la cultura americana nell’aria, l’Herald Tribune in salotto, i libri dei grandi presidenti sulle mensole di casa, e Bruce Springsteen nelle orecchie. Non ho memoria di quando ancora non conoscevo Streets of Philadelphia, perché ero troppo piccola per ricordare. E pensavo parlasse di formaggio. Ho visitato gli Stati Uniti la prima volta, ancora ragazzina, nell’estate 2008, e ho passeggiato con la mia spilletta Yes We Can appuntata sullo zaino. Seguo con passione la politica americana da anni, e oggi ne scrivo sperando di portarci il valore aggiunto della mia formazione scientifica: le opinioni sono sempre ben accette, ma solo sulla base di fatti oggettivi, dimostrati e condivisi.

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