Non passa giorno nel quale Donald J. Trump non si vanti pubblicamente della sua ricchezza, ricordando a chiunque gli capiti a tiro come il proprio benessere economico sia garanzia di trasparenza e contrapponendolo alla corruzione dei professionisti della politica, descritti alla stregua di burattini in mano ai grandi donors. Di fronte a un elettorato ormai stanco dell’establishment, la retorica trumpiana dell’autofinanziamento, o quantomeno dell’indipendenza dai grandi interessi economici, è stata uno dei segreti dell’inaspettata ascesa politica del tycoon durante le primarie repubblicane, mentre dall’altro lato il malcelato legame tra Hillary Clinton e gli ambienti della grande finanza di Wall Street costituiscono uno dei maggiori talloni d’Achille della ex Segretario di Stato.
Ma The Donald, si sa, ha un’innata propensione alla menzogna . E anche in questo caso non ha smentito la propria fama di mentitore seriale. Dietro la roboante patina propagandistica si cela infatti un’altra verità, che dimostra come la sua campagna elettorale sia pesantemente manovrata da un onnipotente sponsor, rientrando così nei “normali” meccanismi di finanziamento in voga negli States (e a suo tempo pesantemente contestati da Bernie Sanders durante le primarie democratiche).
Il “burattinaio” in questione si chiama Robert Mercer, classe 1946, eccentrico magnate, amministratore delegato dell’hedge fund Renaissance Technologies e da anni generoso difensore della corrente più conservatrice del partito repubblicano. L’azienda di cui è a capo Mercer, con sede a Long Island (New York) gestisce più di 30 miliardi di dollari in asset ed è specializzata nel cosiddetto “algorithmic trading”, un sistema di speculazione basato sullo spostamento di denaro attraverso l’utilizzo di tecniche computerizzate, in grado di investire o disinvestire (spesso in pochissimi secondi) ingenti somme applicando complicati algoritmi.
I media americani conoscono da tempo la sua figura, tanto da definirlo uno dei mega donors conservatori più influenti degli ultimi tempi. In relazione a Trump, il suo nome è saltato fuori già in occasione della Convention di Cleveland, ma è un recente articolo pubblicato dalla rivista Time a darne un ritratto straordinariamente efficace, ricostruendo il suo strettissimo legame con il fulvo newyorkese.
La trama è fin troppo lineare: prima di scommettere su Trump, durante le primarie del GOP Mercer aveva puntato su Ted Cruz, finanziandolo con donazioni milionarie tramite uno dei tanti SuperPacs (comitati elettorali) che gravitavano attorno al senatore texano. Al vertice del SuperPac, controllato interamente da Mercer e denominato Keep The Promise 1 c’era Kellyann Conway, diventata (guarda caso) campaign manager di Trump dopo la cacciata di Paul Manafort. Non bastasse, il potente imprenditore è anche il principale finanziatore del giornale conservatore Breitbart, il cui direttore Stephen Bannon è attualmente il numero due del nuovo team Trump (altra incredibile coincidenza).
Non ci vuole dunque molto a capire come il cambio al vertice della macchina elettorale del tycoon, ufficialmente giustificata dalla scarsa efficacia della strategia di Manafort e dai suoi evidenti attriti personali con Trump, sia stata in verità una vera e propria scalata, messa in atto da Mercer con l’indispensabile apporto della figlia Rebekah, la quale ha assunto un ruolo di primo piano nell’operazione.
Tanto per usare le parole di un’anonima fonte vicina a The Donald riportate da Time: “si sono comprati l’ingresso. Le persone ora in carica ora sono tutte legate ai Mercer”. La presa del potere avveniva dietro le quinte della Convention di Cleveland mentre sul palco si consumava la pantomima di Cruz, il quale si ostinava a negare il proprio appoggio allo stravagante newyorkese facendo infuriare i suoi ex padrini. A proposito, il tanto atteso (e forse ormai inutile) endorsement del texano è finalmente giunto la scorsa settimana, e a detta di molti sarebbe stato concesso ab torto collo proprio su pressione dei Mercer, i quali avrebbero altrimenti minacciato di chiudere in futuro i rubinetti a Ted.
Ma se l’influenza politica del finanziere è palese, quali sono gli interessi che lo hanno spinto ad appoggiare la frangia estrema del partito repubblicano e poi l’attuale contestatissimo nominato, lontano anni luce dalle posizioni ideologiche del rivale Cruz? Date le premesse, è abbastanza chiaro come la questione che sta più a cuore ai Mercer non sia legata minimamente ai principi del “true conservatorism”, ma sia molto meno nobile.
Nel dettaglio, Time spiega come da sempre Robert abbia un obiettivo vitale: evitare che gli sia imposta una (anche piccola) tassa sulle transazioni, la quale intaccherebbe le lucrose speculazioni su cui si vive il proprio hedge fund. Da qui la profonda avversione per Hillary Clinton, che sembra invece spingere per una legislazione del genere, e persino per repubblicani come John McCain, contrastati nelle ultime due primarie per il seggio al Senato.
Insomma, mentre Trump non vuole presentare la propria dichiarazione dei redditi, forse perché non è realmente così ricco come dice di essere, spunta sulla scena un autentico paperone, a cui basta uno schiocco di dita per prendere le redini dell’intera baracca senza che The Donald osi fiatare.
Una circostanza, questa, che al di la del caso Trump deve far riflettere sull’interferenza dei grandi donors in entrambi gli schieramenti politici, sempre presente nel corso della storia americana, ma divenuta eccessiva dopo la sentenza della Corte Suprema Citizen United (2010), che ha eliminato qualsiasi limite alle contribuzioni politiche dei privati.
Dal canto suo, il presunto miliardario Donald Trump continuerà a raccogliere voti dando l’impressione di essere autonomo rispetto a lobbisti e interessi speciali.
Dopotutto sa che una bugia, se ripetuta un milione di volte, finisce inevitabilmente per trasformarsi in verità.