Un reality show, abilmente orchestrato da uno che di show business ne capisce. In fondo, era questo che tutti si aspettavano. Ed è questo il parziale bilancio che possiamo trarre dai primi due giorni della Convention repubblicana di Cleveland, la quale ha segnato il trionfo della retorica trumpiana, il cui ruolo è stato fondamentale nella scalata al partito del tycoon newyorkese. Tra i grandi assenti, oltre a uomini simbolo della storia recente del Grand Old Party come John McCain, Mitt Romney e l’intera dinastia Bush c’è, ovviamente, la politica.
Soprattutto nel primo giorno, dedicato alla sicurezza interna e internazionale ed efficacemente intitolato “Make America safe again”, si è preferito parlare alla pancia più che alla mente degli elettori, e il risultato è stato un quadro a tinte fosche, nel quale le paure dell’America del terzo millennio sono state amplificate, evocando spettri sull’onda degli ultimi sanguinosi eventi che hanno sconvolto il mondo. L’atmosfera è insomma quella di un comizio di Trump senza Trump, che nel bene e nel male è in molti casi capace, proprio in virtù della sua natura di showman, di “alleggerire” il clima sfoggiando sul palco la sua innata vis comica. Gli interventi di Rudy Giuliani e del generale Michael Flynn, tra gli oratori più attesi, sono invettive tanto infuocate quanto vacue, che giocano sul risentimento scavando nel solco delle divisioni razziali e internazionali per evitare di offrire soluzioni concrete.
Ma il culmine si raggiunge quando sul palco sale Patricia Smith, madre di una delle vittime dell’attentato contro l’ambasciata americana a Benghazi del 2012, la cui tragica esperienza viene abilmente utilizzata a fini politici. Obiettivo: puntare il dito contro Hillary Clinton, dipinta, nella fantasiosa mente della destra americana, come la responsabile ultima dell’attentato. I fatti, la realtà, le indagini, sono optional privi di importanza, oscurati da una pornografia del dolore confezionata ad arte.
Paradossalmente, però, alla fine del primo giorno, l’attenzione dei media è tutta focalizzata sul discorso di Melania Trump, che sarà pure in parte copiato da quello pronunciato da Michelle Obama nel 2008, ma non fa male a nessuno. A dimostrazione di come anche tra i mezzi di comunicazione il sensazionalismo prevalga sui contenuti.
Martedì, invece, è il momento della nomina ufficiale di Trump e segna la formale vittoria del magnate su un partito che ha tentato fino all’ultimo di snobbarlo, gufando per mesi sui successi di The Donald. E così, mentre i due volti ufficiali del GOP Mitch McConnell e Paul Ryan fanno pubblicamente il loro definitivo atto di sottomissione e Chris Christie si lancia in una pesante filippica contro la Clinton, usata al solito come parafulmine da quasi tutti gli oratori, persino il flemmatico Ben Carson (che quando si è trattato di appoggiare Trump è stato però velocissimo) si è fatto trascinare dalla foga, evocando nientemeno che Lucifero per dare un’idea di cosa aspetta l’America in caso di vittoria di Hillary. Dal canto loro i figli del tycoon tessono gli elogi del padre, descritto da Tiffany come un genitore affettuoso e da Donald Junior come un carismatico business man in grado di mettere fine alle disastrose politiche economiche dei liberal.
Il tema è l’economia, ma ancora una volta di contenuti ce n’è pochi. Il motivo, a ben vedere, non è solo legato alla volontà di Trump di non “annoiare” gli spettatori con lunghi e pomposi discorsi che spesso affollano eventi del genere, ma sta nel fatto che le poche proposte politiche emerse durante la sua campagna elettorale (basate su un protezionismo economico che rigetta gli accordi di libero scambio) sono in netto contrasto con la linea del Grand Old Party, il quale per decenni si è mosso nella direzione opposta. A vincere è di nuovo la vaghezza, a coprire un’imbarazzante differenza di vedute su alcune delle questioni che tormentano la classe media degli USA, disorientata da un sistema privo di prospettive.
Ma se il format messo in scena da Trump a Cleveland è senza dubbio efficace per galvanizzare i suoi sostenitori, che influenza avrà su quella grandissima fascia di elettorato ancora indecisa se votarlo o no? È proprio tra gli indipendenti che il magnate si giocherà l’elezione a novembre, e dovremo ancora attendere la fine del raduno repubblicano e il discorso finale di Trump per valutarne l’effetto complessivo. Secondo alcuni autorevoli commentatori d’oltreoceano, l’ambizione del tycoon è quella di presentarsi come un “nuovo Nixon”, capace di raccogliere consensi presentandosi come il candidato della legge e dell’ordine. A ribadirlo è stato anche il campaign manager Paul Manafort, che ha esplicitamente citato il discorso di accettazione della nomination pronunciato dal celebre presidente durante la convention del ’68, quasi a suggerire che, quando toccherà a lui, Trump dirà qualcosa di simile.
Il paragone, però, non convince. A parte l’immensa differenza di statura politica tra i due personaggi, che rende Nixon molto più simile a Hillary che a The Donald, c’è infatti un ulteriore aspetto che dovrebbe far riflettere. Durante la turbolenta campagna elettorale del 1968, per molti versi simile a quella odierna, Nixon fu straordinariamente abile a catturare la celebre “maggioranza silenziosa”, e per far ciò si presentò come l’alternativa moderata e affidabile non solo rispetto al caos in cui era caduto il partito democratico, ma anche nei confronti di George Wallace, un Southern Democrat che quell’anno si era presentato come indipendente destando scompiglio sulla base di un programma segregazionista e di una retorica estremista. Come abbiamo già sottolineato da queste colonne, il linguaggio del celebre governatore dell’Alabama è incredibilmente simile a quello di Trump, e l’elettorato al quale punta il magnate oggi è tutt’altro che silenzioso.
Ma la Storia non si ripete mai in maniera identica. E non è detto questa volta, in un paese in piena crisi di valori e stregato da anni di reality show televisivi e superficialità dei media, la strategia del furbissimo Donald possa dare risultati sorprendenti.