Washington D.C., primavera 1974. Il Comitato Giudiziario del Congresso indaga senza sosta su un caso delicatissimo, raccogliendo prove, ascoltando testimoni, collezionando pareri giuridici e montagne di documenti. Sul banco degli imputati c’è il Presidente in carica, Richard Nixon, che nel corso di quell’estate infuocata sarà costretto a dimettersi, sommerso dall’onta dello scandalo Watergate. La vicenda è celebre, ma in pochi sanno che in quei mesi cruciali, tra il personale incaricato alla consulenza dell’House Judiciary Committee vi è anche un’avvocatessa ventiseienne originaria di Chicago di nome Hillary Rodham, a cui la sorte riserverà un destino di successo.
Ironie della Storia, quarant’anni dopo Hillary Rodham Clinton e Richard Milhous Nixon, le cui vite si incrociarono fugacemente nel ’74, saranno legati da una serie di curiose affinità. Lo scandalo dell’email gate, però, accostato maldestramente al Watergate dai media conservatori, non c’entra nulla, anche se verrebbe istintivo pensare che sia questo il metro di paragone tra i due personaggi. Al contrario, come i più acuti osservatori d’oltreoceano cominciano a capire, il parallelo risiede nell’abilità con cui entrambi costruirono la propria ascesa e nello stereotipo che incarnano nell’immaginario collettivo.

Quando Richard Nixon si candidò alla presidenza per la seconda volta, nel 1968, era già un veterano della politica. Un “uomo dell’establishment” lo chiameremmo oggi, che nel corso della carriera aveva conosciuto glorie e sconfitte, guadagnandosi il soprannome di “Tricky Dick”, per via della sua fama di politico infido e calcolatore. In modo simile, la Clinton è diventata l’emblema dello status quo, la personificazione del politico reazionario e opportunista, divisivo, spocchioso e ipocrita. Da Tricky Dick si è passati a Crooked Hillary, ma la sostanza non cambia. Il copione delle accuse mosse a Nixon e alla Clinton è identico. E a ben vedere persino le personalità dei due si assomigliano incredibilmente. Entrambi hanno la fama di persone riservate e diffidenti, intelligentissime ma con un deficit di carisma che le fa percepire dall’opinione pubblica come false, a torto o a ragione. Nel 1960 e nel 2008, Richard e Hillary pagarono cara la mancanza di empatia con l’elettorato quando incontrarono sulla loro strada personalità magnetiche come John Fitzgerald Kennedy e Barack Obama. Tuttavia, dimostrarono di possedere una forza e una tenacia fuori dal comune, ritornando otto anni dopo a reclamare il tanto ambito posto allo Studio Ovale.
Prima del ’68, dopo aver ricoperto la carica di vicepresidente per sette anni sotto Eisenhower, Nixon aveva infatti già tentato di percorrere la strada della presidenza, presentandosi alle elezioni del 1960 e venendo sonoramente sconfitto dal carismatico JFK. Due anni dopo cadde ancora più giù, subendo un altro umiliante rovescio contro il democratico Pat Brown per il seggio di Governatore della California.
Tutti all’epoca lo davano per morto, e lo stesso Nixon accarezzò l’amara idea di un definitivo ritiro dalla scena politica. Malgrado ciò, con tenacia risalì la china, tornando protagonista del palcoscenico politico e presentandosi alle primarie repubblicane del 1968. Non fu un’impresa facile: Dick dovette lavorare duro sulla propria immagine, limandone i contorni spigolosi, girando in lungo e in largo il paese e presentandosi all’elettorato come un “new Nixon”. All’interno del partito dovette inoltre navigare con cautela, accreditandosi come la “terza via” rispetto alla destra del giovane Ronald Reagan, erede del conservatorismo di Barry Goldwater, e la corrente liberal dei repubblicani del Nord, guidata dal newyorkese Nelson Rockfeller e dal governatore del Massachusetts George W. Romney.
Approdato alle presidenziali, Nixon approfittò poi di una situazione caotica. In quell’anno era successo di tutto, dagli omicidi di Robert Kennedy e Martin Luther King alle manifestazioni pacifiste contro la guerra in Vietnam, dalla candidatura del segregazionista George Wallace come indipendente alle terribili divisioni del partito democratico, sfociate nelle violenze di piazza in occasione della convention di Chicago e, infine, nella vittoria alle primarie del vicepresidente uscente Hubert Humphrey, “paracadutato” dall’alto ma fortemente contestato dalla base.
Alla fine, pur avendo subito un preoccupante recupero da parte del suo avversario democratico nei sondaggi, Richard giocò la carta dell’esperienza, presentandosi come il leader di una “maggioranza silenziosa” di americani spaventati dal clima di incertezza in cui versava il paese. E vinse. Non certo grazie alla popolarità né al carisma, ma con astuzia e tenacia, mantenendo la calma e calibrando bene le sue mosse. Nei quattro anni successivi Dick ebbe l’intelligenza di circondarsi di personalità di alto profilo come Henry Kissinger, e prima di essere travolto dallo scandalo Watergate fu rieletto a furor di popolo per un secondo mandato presidenziale. Gli storici hanno riabilitato, al netto degli errori, la sua presidenza riconoscendogli successi strategici importanti, soprattutto in politica estera.

Oggi, nel corso di una delle più strambe elezioni che la storia recente ricordi, la candidatura di Hillary attraversa una fase critica, ma la ex First lady potrebbe guardare con interesse all’esperienza di Nixon. A differenza di Dick, Hillary vede pendere sul proprio capo la spada di Damocle dell’email gate, i cui effetti potrebbero rivelarsi talmente gravi da infliggere un colpo fatale alle sue aspirazioni, e gli ultimi sondaggi la danno in sostanziale pareggio (se non addirittura in leggero svantaggio) nei confronti di Donald Trump, mentre è ancora in corso l’estenuante duello con Bernie Sanders, deciso a lottare fino all’ultimo voto e ad avere voce in capitolo nella convention di Philadelphia. Lo scontro tra i democratici in queste battute finali delle primarie si è inasprito, destando non poche preoccupazioni. Ma nell’ottica delle presidenziali, le fazioni opposte sembrano disponibili a trovare un compromesso, come dimostra il ruolo che Sanders sta guadagnando all’interno del comitato che a luglio scriverà l’agenda politica del partito. In termini di strategia elettorale, essenziale sarà la capacità della ex First Lady di mobilitare sotto le sue insegne non solo il fedele elettorato democratico e le minoranze, ma anche gli indipendenti e i giovani, cioè quello che rimarrà degli attuali sostenitori del vecchio Bernie, ammesso che tutto vada come previsto e riesca a giungere indenne alla nomination. In proposito, un recente studio mostra come la chiave del successo della Clinton sia proprio l’elettorato indipendente. Stando ai dati, sebbene ben il 61% dei sostenitori di Sanders veda di cattivo occhio Hillary e solo il 55% abbia dichiarato l’intenzione di votarla alle presidenziali, appena una piccola minoranza (pari al 15%) si è detta disponibile a dare il proprio sostegno a Trump. Sembra dunque improbabile un’automatica “migrazione di massa” di elettori dalle schiere di Bernie a quelle del milionario newyorkese, il quale è ancora avversato da larghe fette di elettorato.
Seguendo un imperscrutabile disegno, la Storia ha messo Hillary e Nixon al centro della scena nel corso di campagne elettorali che, seppur diversissime, non sono certo espressione di tempi tranquilli. A turbare i sonni degli americani non ci sono più, per fortuna, scontri di piazza e omicidi eccellenti come nel ’68, ma una situazione internazionale altamente instabile, una ripresa che stenta a distribuire i suoi frutti ai giovani e alla middle class, e infine un candidato grottesco come The Donald, la cui imprevedibilità rappresenta un’inquietante incognita per il paese (e non solo).
Per vincere, Hillary dovrà seguire la lezione di Nixon sperando di ottenere i medesimi risultati; mantenendo l’equilibrio, evitando di umiliare Sanders e appellandosi a quella maggioranza silenziosa di buon senso che, pur non amandola, preferisce un cattivo presidente a un punto interrogativo potenzialmente disastroso come Trump.