Lo scandalo è durato un’eternità, tra infinite polemiche, gravissime accuse e continue indiscrezioni. Eppure i suoi strascichi continuano a far male. Martedì il capo dell’FBI James Comey ha formalmente messo fine all’indagine sul cosiddetto emailgate, incentrata sull’utilizzo della corrispondenza elettronica da parte di Hillary Clinton quando ricopriva il ruolo di Segretario di Stato, assolvendola da qualsiasi accusa penale e raccomandando al Dipartimento di Giustizia di non procedere al rinvio a giudizio nei confronti della ex First lady.
Detta così, per Hillary sembrerebbe una notizia meravigliosa. E senza dubbio chiude dal punto di vista legale un’odissea che ultimamente era diventata sempre più fastidiosa e in grado di comprometterne la tanto agognata nomination a meno di un mese dalla Convention di Philadelphia. Tuttavia, da una prospettiva puramente politica, le risultanze dell’indagine non sono affatto positive.
Se da un lato, infatti, Comey ha escluso categoricamente ulteriori ripercussioni legali affermando che “il nostro giudizio è che nessun ragionevole pubblico ministero perseguirebbe un caso del genere”, dall’altro il suo discorso è zeppo di rimproveri nei confronti della Clinton, e smonta pezzo per pezzo le diverse versioni della vicenda fornite nel corso dei mesi dalla candidata democratica. “Anche se non abbiamo trovato prove evidenti che la Segretaria Clinton e i suoi colleghi intendessero violare le leggi sulla gestione del materiale classificato, è evidente che sono stati estremamente negligenti nell’amministrare informazioni assai sensibili e altamente riservate” ha affermato Comey, dimostrando come in una serie di circostanze la condotta di Hillary non sia stata proprio cristallina e non escludendo (anche se non sono state trovate prove al riguardo) che “attori ostili” abbiano potuto violare l’account privato dell’ex capo della diplomazia americana.
Uno schiaffo imbarazzante per la credibilità della ex First lady, che continua a essere percepita dall’elettorato come un candidato opportunista e poco sincero.
Le parole di Comey giungono inoltre al termine di una settimana complicata per Hillary, la quale prima di essere interrogata per tre ore e mezza dall’FBI nella giornata di sabato, ha dovuto fare i conti con le polemiche scatenate il giorno prima dal comportamento del marito. Venerdì, incontrando per caso il Procuratore Generale (cioè il capo del Dipartimento di Giustizia) Loretta Lynch all’aeroporto di Phoenix, Bill non ha potuto fare a meno di intrattenervisi per più di mezz’ora per un colloquio privato “chiacchierando del più e del meno” e mettendo tutti in imbarazzo dato il ruolo della Lynch nella vicenda dell’emailgate. Un atteggiamento ambiguo che ha ovviamente sollevato un vespaio.
Tra le accuse di Comey e le gaffe dello sbadato Bill, la povera Hillary è stata suo malgrado bersaglio di uno sgradevolissimo fuoco di fila mediatico.
E il rivale Donald Trump non poteva chiedere di meglio per scatenare la sua micidiale e ormai nota vis polemica. Parlando di fronte a 2000 persone a Raleigh, in Nord Carolina, il tycoon è subito partito all’attacco, sfoderando alcune delle sue frequenti ed efficacissime bordate. “Ho sempre saputo, e sempre visto […] che il nostro sistema è truccato” ha affermato The Donald, riprendendo (almeno a parole) uno dei cavalli di battaglia dell’altro outsider di queste primarie: Bernie Sanders, il quale si è più volte scagliato contro la corruzione del sistema durante la propria campagna elettorale. “Bernie Sanders ha parlato di pessimo, pessimo giudizio [riferendosi all’operato di Hillary e ad alcune delle decisioni da lei prese in passato ndr] e non credo sia felice stasera, ma sappiate una cosa, ho la sensazione che molta gente marcerà su Philadelphia” ha profetizzato il magnate, riferendosi alle proteste organizzate da alcuni dei più “estremi” sostenitori del senatore del Vermont, i quali non vogliono accettare la sconfitta del loro beniamino. Come abbiamo in passato sottolineato da queste colonne, le parole di Trump sono un invito esplicito rivolto agli scontenti di sinistra, che sentiremo ancora spesso nei mesi a venire. Non è mancato, nel comizio, un accenno alla politica estera, nel quale si è esibito in un elogio postumo al dittatore iraqeno Saddam Hussein, considerato dal tycoon un baluardo contro i terroristi che dopo la sua caduta imperversano in quella regione del mondo.
L’affondo alla Clinton è stato naturalmente il nocciolo del discorso di Donald, che in merito all’emailgate ha emesso il suo perentorio giudizio: colpevole, senza appello. “Tutti pensavano, in base a ciò che è stato detto, che lei fosse colpevole. Lei era colpevole. E poi è venuto fuori che non sporgeranno denuncia. È veramente incredibile” ha accusato il fulvo newyorkese, sostenendo che i risultati dell’indagine sono la palese dimostrazione di come l’establishment protegga la candidata democratica. “Se non può tenere al sicuro le sue mail, non può tenere nemmeno il paese al sicuro” ha continuato, rilanciando incessantemente le accuse e fomentando la reazione della folla, che come al solito ha gradito la sua tagliente oratoria.
In fondo, gli ultimi avvenimenti sono venuti in soccorso di The Donald, il quale sabato ne aveva combinata una delle sue scandalizzando i media di mezza America. In uno dei suoi ormai noti tweet (subito rimosso), Trump aveva infatti postato una foto della Clinton con alle spalle una montagna di banconote e la scritta “il candidato più corrotto di sempre” contenuta in una stella a sei punte. Una combinazione di fattori (il denaro e la stella di Davide) dal gusto esplicitamente antisemita, ripresa per di più da una identica immagine postata qualche giorno prima da un sito razzista.
Chiamati in causa da giornali e televisioni, Trump e il suo staff hanno accuratamente evitato di scusarsi per la gaffe, rimandando al mittente le accuse e puntando il dito contro la “malafede” dei media.
Con i riflettori sulla Clinton e le sue traversie giudiziarie, The Donald ha potuto così deviare l’attenzione dai propri immancabili eccessi.

Se insomma le ultime 48 ore di Hillary non sono state affatto piacevoli, a “salvarla” è stato provvidenzialmente Barack Obama, che a distanza di poche ore dall’annuncio di Comey ha tenuto il primo comizio insieme alla Clinton a Charlotte, in Nord Carolina. I due, ovviamente, hanno evitato di parlare dell’emailgate, concentrandosi su questioni meno spinose e non perdendo occasione per criticare la condotta di Trump. Dinanzi a un pubblico entusiasta, il Presidente ha messo il suo carisma a disposizione di quella che lui stesso considera la propria naturale erede alla Casa Bianca. “Non c’è mai stato nessun uomo o donna più qualificato per questo incarico” ha detto Obama (esagerando), spendendosi in attestati di stima e amicizia nei confronti della sua ex Segretaria di Stato, che ha ricambiato la cortesia. Al netto dei sorrisi e delle scontate affermazioni del comizio, è risaputo che Obama non ha mai avuto una particolare simpatia Hillary, paragonabile ad esempio alla profonda amicizia che lo lega al Vicepresidente Joe Biden. Ma ben vedere, oltre alle ovvie ragioni politiche che lo spingono ad appoggiare la ex First lady, il Presidente sembra animato dal desiderio di partecipare direttamente alla “crociata” contro Trump. Quando nel corso dell’evento si è parlato del magnate, l’inquilino dello Studio Ovale ha sottolineato, come fa da tempo ormai, l’impreparazione del candidato repubblicano a ricoprire la presidenza, affermando che “non si tratta di un reality show” ma di un lavoro ben più serio.
Tali attacchi hanno un sapore particolare quando escono dalla bocca del Presidente. Quella fra Obama e Trump non è infatti una semplice e scontata inimicizia politica, ma una vera e propria “questione personale”. Tra il 2011 e il 2012, infatti, lo stravagante newyorkese divenne una sorta di “portavoce” delle teorie cospiratorie del cosiddetto movimento dei “birthers”, secondo cui il Presidente non era nato inegli Stati Uniti e non poteva di conseguenza ricoprire l’incarico. Una leggenda metropolitana che servì a Trump per riscuotere le simpatie di correnti estremiste di destra e rivelatasi totalmente falsa, ma che ha dato a Barack non poche seccature. L’attuale inquilino della Casa Bianca ha frequentemente preso in giro The Donald in proposito, ma oggi, a fine mandato e nel mezzo di una agguerrita campagna elettorale, ha l’occasione di “vendicarsi” come si deve.
Ci sono poi altri attriti ben più recenti. Come quelli che hanno quasi portato Obama a perdere la proverbiale calma, quando Trump ha insinuato che il Presidente fosse un fiancheggiatore degli estremisti islamici, all’indomani della sanguinosa strage di Orlando.
Insomma, anche Obama è entrato in gioco nella campagna elettorale. E vuole contribuire in prima persona alla sconfitta del tycoon.