Mentre all’orizzonte si intravede già l’attesissima battaglia per conquistare lo stato di New York il 19 aprile, martedì le primarie hanno fatto tappa in Wisconsin, segnando una battuta d’arresto per i front runner Donald Trump e Hillary Clinton e la rivincita degli inseguitori di entrambi i partiti.
Nel campo repubblicano, la netta affermazione di Ted Cruz rende sempre più credibile lo scenario di una convention aperta a luglio, ed è il risultato concreto dell’immane sforzo del partito di ostacolare il tycoon newyorkese. A dir la verità, però, oltre alla dirigenza del GOP, nella settimana appena trascorsa Trump ha dovuto affrontare un nemico ben più pericoloso: sé stesso. Il magnate ne ha dette infatti di tutti i colori, ironizzando pesantemente sul look della moglie di Cruz, auspicando una “punizione” per le donne che decidono di abortire, insultando il governatore repubblicano del Wisconsin Scott Walker ed evocando finanche lo scioglimento della NATO. Questa volta, le sue parole gli si sono ritorte contro nelle urne.
Sul fronte democratico, invece, Bernie Sanders continua con tenacia a erodere il vantaggio di Hillary Clinton, collezionando la sesta vittoria consecutiva e navigando verso la Grande Mela col vento in poppa. Il margine a favore della ex First Lady in termini di delegati è ancora consistente, ma l’incredibile energia sprigionata dalla campagna elettorale del senatore del Vermont non accenna a diminuire, come dimostrano le folle entusiaste presenti ai suoi comizi.
Non solo, ma nel mese di marzo l’ammontare delle contribuzioni dirette a Bernie ha superato di ben 14,5 milioni di dollari i fondi raccolti da Hillary, nonostante la Clinton abbia dalla sua l’intero establishment e possa contare su sponsor ben più facoltosi.
In Wisconsin le condizioni “ambientali” hanno favorito Sanders: dalla conformazione dell’elettorato, in maggioranza bianco, al peso del voto dei giovani progressisti e degli indipendenti, molto diffuso nello stato. E se è al momento rischioso lanciare un pronostico definitivo sull’esito dello scontro tra i democratici, c’è una variabile a cui sono appese le ultime chance di successo di Bernie, e sulla quale entrambi i candidati stanno concentrando gran parte dei loro sforzi: si tratta del voto della minoranza afroamericana, che negli stati ancora in ballo può da solo ribaltare le sorti delle primarie. Non si tratta, ovviamente, di una novità. Da decenni, per un candidato democratico è praticamente impossibile vincere la nomination o le elezioni presidenziali senza aver prima conquistato i cuori e le menti dell’elettorato nero, e in generale delle minoranze.
Ma perché sono solo i democratici, e non già i repubblicani, ad avere un legame quasi indissolubile con la comunità afroamericana? Per capirlo bisogna tornare indietro fino agli anni ’30, quando il poderoso piano di investimenti pubblici promosso da Franklin Delano Roosevelt spinse per la prima volta l’America nera, all’epoca in pieno regime segregazionista, a un repentino “cambio di casacca”, dovuto alle opportunità economiche offerte dal New Deal. Prima di allora, la stragrande maggioranza dei neri era fedele al partito repubblicano, che ai tempi di Lincoln aveva abolito la schiavitù e promosso le primissime leggi con cui iniziò il lungo percorso di emancipazione degli ex schiavi. Non è un caso che i primi deputati e senatori neri militassero orgogliosamente tra le fila del Grand Old Party.
Iniziata per ragioni economiche con FDR, l’affiliazione politica degli afroamericani si saldò definitivamente ai democratici negli anni ’60, sull’onda del Civil Rights Movement e delle leggi approvate dall’amministrazione Johnson (come il Voting Rights Act del 1965, che garantì e protesse l’effettivo esercizio del voto da parte dei neri).
A livello nazionale e al contrario del partito democratico, i repubblicani si alienarono definitivamente le simpatie della comunità afroamericana del Sud dall’inizio degli anni settanta, quando il presidente Richard Nixon mise in atto la cosiddetta Southern Strategy, appellandosi al forte sentimento segregazionista ancora presente negli stati meridionali e portando dalla sua i bianchi legati all’ala razzista del vecchio partito democratico, che non si riconoscevano nella svolta di Kennedy e Johnson.
Da allora, la crescente mobilitazione dell’elettorato nero è diventata un elemento fondamentale nella costruzione del consenso da parte dei candidati democratici, costituendo uno dei punti di forza dell’elezione di Obama nel 2008 e nel 2012.
All’indomani del Super Tuesday del primo marzo scorso i principali southern states come Alabama, Arkansas, Georgia e Texas hanno scelto Hillary Clinton, consegnandole gran parte del vantaggio che ancora oggi detiene nei confronti di Bernie Sanders, osservando le percentuali con cui la popolazione nera ha supportato la ex First Lady, la partita per la conquista del voto afroamericano sembrò essersi chiusa senza appello. Tuttavia, nel corso delle primarie, Sanders ha ridotto considerevolmente quel gap, e ora spera in una eventuale vittoria a New York per colmarlo in modo definitivo. Con il grande comizio di giovedì scorso nel South Bronx di New York Bernie ha voluto lanciare un appello proprio alle minoranze, sapendo che il loro contributo è vitale per la realizzazione della “rivoluzione politica” da lui evocata.

La comunità nera, in particolare, soffre livelli di disoccupazione e di esclusione sociale di molto maggiori rispetto a quelli dei bianchi e negli ultimi anni gli episodi di violenza da parte delle forze dell’ordine contro cittadini neri sono stati numerosi. Il forte disagio è sfociato nel 2013 nella fondazione del movimento Black Lives Matter, nato per sensibilizzare l’opinione pubblica rispetto agli abusi perpetrati dalla polizia, il quale però non appoggia ufficialmente nessuno dei due candidati democratici.
Può sembrare strano che il messaggio di Sanders, incentrato sul rafforzamento del welfare a favore classi più deboli e sulla lotta alle disuguaglianze sociali e razziali tuttora diffuse negli USA, non abbia fatto presa nel Sud, considerato tra l’altro il passato personale di Sanders, attivo in gioventù contro la discriminazione razziale al fianco del Civil Rights Movement. In realtà, però, il memorabile trionfo di Hillary nel Super Tuesday è dovuto a una serie di ragioni che vanno dalla migliore organizzazione sul campo alla popolarità che storicamente la “dinastia” Clinton ha negli stati del profondo Sud. Il rapporto tra Hillary e la comunità afroamericana, cementato dall’amicizia con l’influente chiesa protestante nera, è ormai trentennale e risale ai tempi in cui il consorte ricopriva il ruolo di governatore dell’Arkansas. La successiva elezione alla Casa Bianca di Bill nel 1992 fu salutata con entusiasmo dai neri, tanto che la scrittrice afroamericana Toni Morison lo battezzò con il celebre epiteto di “primo presidente nero”, per via della sua inconfondibile affinità, caratteriale e culturale, con gli elettori afroamericani.
Dal canto suo, Clinton nominò nel proprio governo il maggior numero di neri della storia degli USA, anche se i risultati concreti delle sue politiche non rivoluzionarono più di tanto la vita della popolazione nera.
Oltre a sfruttare a pieno il suo cognome, Hillary si è poi presentata come l’erede naturale di Obama, il cui appeal è chiaramente molto alto tra la minoranza afroamericana.
È chiaro, dunque, come la Clinton sia partita con una marcia in più rispetto al socialista del Vermont, il cui nome era quasi sconosciuto all’inizio della campagna elettorale.
Da qui alla grande convention di Philadelphia di fine luglio una cosa è certa: Bernie dovrà lottare per ogni voto, sperando che l’America nera non arrivi troppo tardi all’appuntamento con la rivoluzione.