È la prima scelta cruciale a cui sono chiamati i vincitori delle primarie. Sbagliandola rischierebbero di compromettere la corsa alla Casa Bianca, mentre indovinarla può rivelarsi la mossa decisiva della propria campagna elettorale.
La selezione del cosiddetto running mate (ovvero del candidato alla vicepresidenza) è stata sempre un punto di svolta nella strategia delle primarie, stuzzicando la fantasia di giornalisti e analisti politici. Il motivo di tale interesse sta anche nella sua segretezza, che lo rende uno dei pochi eventi su cui i candidati lavorano per mesi dietro le quinte e con religioso riserbo.
Ma chi può essere il perfetto braccio destro di Hillary, Sanders, Trump o Cruz? La risposta dipende da un complesso di fattori, tra cui la provenienza geografica, l’esperienza e l’attitudine a bilanciare il ticket colmando eventuali punti deboli del candidato presidente. La storia dimostra come spesso le scelte meno scontate possano rivelarsi vincenti. E fino a ora le primarie hanno riservato incredibili sorprese, prima fra tutte l’inaspettata ascesa degli outsider Trump e Sanders, in grado di sconvolgere schemi e pronostici anche nella futura scelta dei vicepresidenti.
Le incertezze del GOP
Dentro lo schieramento repubblicano, le possibili opzioni nella scelta dei running mates si inseriscono nel contesto di un partito sull’orlo di una crisi di nervi, tormentato dall’incubo sempre più probabile di una affermazione di Trump alla convention di luglio.
Nel dibattito Town Hall organizzato martedì dalla CNN in vista del voto del cinque aprile in Wisconsin, gli occhi erano puntati sul milionario newyorkese e sullo scandalo che ha coinvolto il suo campaign manager Corey Lewandowski, accusato dalla polizia della Florida di avere aggredito una reporter. Lungi dal licenziare lo scomodo collaboratore, Trump lo ha difeso a spada tratta, dicendosi sicuro dell’infondatezza delle accuse rivolte a Lewandowski.
Interrogati su temi caldi come il terrorismo e il possesso di armi nucleari da parte di paesi potenzialmente pericolosi, sia il tycoon che Cruz hanno recitato come al solito la parte dei falchi, puntando il dito sulla presunta debolezza dell’attuale amministrazione, mentre John Kasich ha confermato la reputazione di moderato, evitando di criminalizzare la comunità islamica (come hanno recentemente fatto i suoi avversari) e appellandosi alla calma e all’unità.
Quando però il moderatore Anderson Cooper ha chiesto ai candidati di riaffermare il proprio supporto a chiunque risultasse il nominato, sono emerse le reticenze e le incertezze degli aspiranti inquilini della Casa Bianca. Le risposte di Cruz e Kasich sono state evasive, mentre Trump ha lasciato intendere senza mezzi termini di non sentirsi obbligato da nessun vincolo di fedeltà nei confronti dei suoi avversari.
Insomma, tutti e tre navigano in questo momento a vista, e nessuno vuole scoprire le sue mosse.
Arma segreta

Sono due i possibili scenari da qui alla convention, entrambi con diverse conseguenze nelle decisioni sui running mates. Nel primo, dopo aver conquistato i 1237 delegati necessari ad assicurarsi la nomination, Trump deve tendere una mano all’elettorato conservatore moderato, scegliendo un braccio destro in grado di rendere meno “estrema” la sua immagine. Il magnate ha d’altronde ribadito spesso di voler scegliere un politico esperto come running mate. Tuttavia i nomi ipotizzati, come quello dell’ex governatore del Massachusetts Scott P. Brown (moderato già da tempo schierato con Trump), non convincono perché troppo ovvi. Data la reputazione misogina del milionario, che gli ha alienato buona parte delle simpatie femminili, per alcuni nominare una donna, come l’ex governatrice dell’Arizona Jan Brewer, potrebbe essere una scelta migliore.
Nel secondo scenario, invece, nessuno dei candidati alla presidenza riesce a guadagnare la maggioranza, inaugurando una open convention, cioè una guerra civile in cui contendenti (ed eventuali outsider) lottano per ottenere quanti più voti possibili.
In tale contesto, a detta degli esperti la designazione del running mate potrebbe essere l’arma segreta con la quale portare dalla propria la maggioranza, ed essere il frutto di accordi dell’ultim’ora. È in questa eventualità che personaggi come Kasich, il quale rimane in corsa nonostante non possa matematicamente vincere la nomination, potrebbero avere un ruolo chiave, “vendendosi” al miglior offerente.
Di fronte all’intero partito Trump sarebbe in un vicolo cieco, mentre il suo principale avversario, Ted Cruz, si muoverebbe con maggiore disinvoltura.
Stando alle indiscrezioni rese note da membri del suo staff, fino a pochi giorni fa il senatore del Texas ha provato a offrire la candidatura alla vicepresidenza all’ex rivale Marco Rubio, che tuttavia avrebbe rifiutato l’offerta. E se Cruz tenta di blandire vecchi avversari, tra questi Chris Christie e Ben Carson appoggiano apertamente Trump, sperando di riceverne in cambio future cariche governative. Ma sembra difficile immaginare che uno di loro possa seriamente aspirare alla vicepresidenza, dato il peso specifico dei due dentro il partito. Insomma, a oggi nessun candidato credibile del GOP ha avuto l’ardire di uscire allo scoperto. Bisogna ancora attendere prima che inizi la battaglia dei nomi.
Elettorato diviso
Mentre i repubblicani navigano in acque confuse, sul fronte democratico le ultime vittorie di Bernie Sanders nei caucuses di Washington State, Alaska e Hawaii, oltre a confermare la vitalità della sua campagna elettorale, hanno per l’ennesima volta mostrato il primo dei problemi al quale dovrà far fronte il futuro nominato democratico, chiunque esso sia: la netta spaccatura della base. A Washington, stato tradizionalmente progressista e con una limitata presenza di minoranze nere e latine, il socialista del Vermont ha ottenuto ben il 73% delle preferenze, entusiasmando l’elettorato giovanile di sinistra, come avvenuto in quasi tutti i contesti precedenti. La Clinton, al contrario, a dispetto dei continui appelli ai giovani, non riesce a intercettarli, e ha dalla sua gli elettori moderati e le minoranze, che le hanno permesso di ottenere vittorie schiaccianti in tutto il blocco degli stati del Sud.
Oltre a ciò, le incessanti accuse del senatore del Vermont sui legami tra la sua avversaria e le grandi lobby finanziarie hanno creato una fortissima antipatia tra Hillary e la parte più progressista degli elettori democratici, tanto che un sondaggio commissionato dal Wall Street Journal e NBC News ha svelato che un terzo dei sostenitori di Bernie si rifiuterebbe di votare per la ex First Lady nel caso quest’ultima vincesse la nomination.
Il dirottamento di tale fetta di elettorato verso candidati alternativi potrebbe costare a Hillary le elezioni di novembre. Proprio per scongiurare il pericolo, alcuni (leggendo tra le pieghe di un’intervista rilasciata da Tad Devine, influente membro dello staff di Bernie) hanno ipotizzato un’idea che a prima vista potrebbe sembrare folle: quella di un ticket Clinton – Sanders. Unendo tutte le anime del partito e spingendo verso una grande partecipazione popolare, la quale storicamente favorisce i candidati democratici, l’accoppiata risulterebbe praticamente imbattibile.
Lo stesso tipo di ragionamento potrebbe essere fatto nell’eventualità (improbabile ma per nulla impossibile) in cui sia Sanders a spuntarla nella convention di luglio. Nel suo caso, la presenza della Clinton gli assicurerebbe l’appoggio delle minoranze presenti al Sud, indispensabile a qualunque democratico aspiri alla presidenza.
Da nemici a running mates
Per ora si tratta di ragionamenti suggestivi, ma astratti e basati su sporadiche indiscrezioni. Resta poi da chiedersi se l’anima populista dei democratici, rappresentata da Sanders, sia disposta a trovare una piattaforma programmatica comune durante la convention, magari rinunciando opportunisticamente a una parte della propria “rivoluzione politica” per mettere al sicuro il paese dai repubblicani.
Fantapolitica? Forse. Eppure la storia americana è piena di esempi in cui il “nemico” si trasforma in braccio destro. Un episodio emblematico fu quello del ticket tra John Kennedy e Lyndon Johnson nelle lontane primarie del 1960. Dopo averlo aspramente combattuto in campagna elettorale ed essersi assicurato la maggioranza dei delegati necessari alla nomination durante la convention, JFK annunciò la scelta di Johnson come vicepresidente, lasciando tutti a bocca aperta. Con quel sorprendente accordo Kennedy voleva guadagnare i voti dei Southern Democrats e per far ciò aveva bisogno dell’appoggio dell’ex avversario, il quale aveva proprio nel Sud (soprattutto in Texas, il suo stato di origine) la propria roccaforte elettorale.
Com’è noto, la decisione di Kennedy contribuì alla vittoria nelle elezioni di novembre contro Nixon, anche se i due continuarono a disprezzarsi profondamente nel corso della presidenza di JFK, dando vita a una delle inimicizie più celebri della storia politica americana.
Vent’anni dopo, nel 1980, fu Ronald Reagan a scegliere come running mate l’ex avversario George H.W. Bush, dopo che questi, considerato un centrista, aveva denigrato i suoi programmi economici durante le primarie. Anche in quel caso si trattò di una mossa inaspettata ma vincente, presa in extremis, sia per dare una parvenza più moderata al suo programma politico, sia per avvalersi delle maggiori competenze di Bush in politica estera, di cui Reagan era digiuno.
Ritornando al presente, una cosa sembra certa: se Hillary o Bernie vogliono dare unità al partito, il migliore running mate, per ognuno dei due dovrebbe assomigliare al proprio attuale antagonista.
È perfettamente logico, dunque, che i primi nomi indicati dalla stampa quali probabili running mates della Clinton, siano quelli di Elizabeth Warren, Sherrod Brown e Tom Perez.
Economista e senatrice del Massachusetts, Warren è una “Bernie Sanders al femminile”, nota per le sue crociate contro le speculazioni bancarie e firmataria di iniziative legislative a favore dei piccoli risparmiatori. Sollecitata più volte ad appoggiare uno dei due candidati, ha mantenuto una rigorosa neutralità, ma il suo identikit sarebbe perfetto a dare al ticket una decisa impronta liberal. Un personaggio simile è il senatore Sherrod Brown, che già da tempo ha dato il suo endorsement a Hillary. Oltre a provenire dall’Ohio (uno degli stati chiave durante le elezioni presidenziali perché tradizionalmente in bilico tra democratici e repubblicani) anche Brown ha una reputazione di “uomo di sinistra”, contrario ad accordi neoliberisti come il TTIP, attivo nella lotta contro lo strapotere delle grandi istituzioni finanziarie e deciso oppositore, suo tempo, dell’intervento in Iraq. Pur avendo escluso esplicitamente un suo interesse alla carica, Brown avrebbe tutte le carte in regola per aspirarvi, così come Tom Perez, segretario del lavoro con un vasto seguito nella working class e altro papabile running mate.
Se la stampa si è già scatenata nell’individuare il vice di Hillary, le discussioni sull’eventuale scelta di Sanders sembrano essere snobbate dai media mainstream. Tuttavia, se fosse mosso dalla volontà di bilanciare il ticket senza apparire come un “traditore” agli occhi dei suoi sostenitori, il suo running mate ideale dovrebbe essere radicato nel Sud, godere di un vasto consenso delle minoranze e infine non essere troppo inviso ai democratici moderati.
Questo naturalmente se si volesse seguire alla lettera il manuale del “perfetto candidato”; circostanza che però non sembra essere di moda in queste imprevedibili primarie.