“Per me la scrittura è un’esplorazione, un’introspezione sulla vita. Non devo andare lontano da casa per essere sorpreso da quello che scriverò e che mi avvince e di cui voglio scrivere”, ha detto Jonathan Safran Foer in una domenica di fine giugno a Taormina. Lo scrittore, che vive a Brooklyn, è stato incontrato lontano da casa, in Sicilia, dove ha visitato l’isola per la prima volta e ha apprezzato la granita di gelsi. Foer è stato premiato al Taobuk Festival la scorsa settimana. Durante un incontro che ho moderato, ha parlato di creatività e catastrofi insieme all’autore israeliano Etgar Keret.
Foer e Keret condividono un’amicizia decennale basata su un simile approccio alla scrittura, nonostante si siano incontrati di persona solo una decina di volte. Keret ha raccontato in una recente intervista pubblicata su La Lettura del Corriere della Sera che, il 13 aprile, quando missili e droni iraniani stavano arrivando su Israele, ha deciso di mettere in salvo il suo nuovo libro di racconti non ancora pubblicato inviandolo via email proprio a Jonathan, a Brooklyn.
Il Taobuk Festival sceglie ogni anno un tema, e questa volta era l’Identità. Safran Foer ha dichiarato che tutto ciò che ha scritto nella vita è parte di un viaggio verso l’identità. Questo pensiero gli è tornato in mente recentemente, quando un suo caro amico di Washington DC, dove Foer è nato, è andato a trovarlo a Brooklyn con i figli. Non sapendo come trascorrere la giornata, hanno deciso di fare un tour della Brooklyn hassidica, uno dei tanti disponibili a Crown Heights per gruppi di turisti.
“La guida – ci ha raccontato Safran Foer – era un rabbino della mia età, molto carismatico, una di quelle persone che, guardandole negli occhi, trasmettono intelligenza e gioia. Ci ha portato dallo scriba, al tempio, a casa sua, e ci ha presentato sua moglie. Siamo andati a vedere gli artigiani che fanno le parrucche e ci ha spiegato che queste non riguardano la modestia, non servono a nascondersi per essere appropriati. Mi ha chiesto: ‘Tu credi in Dio?’. Ho risposto: ‘Probabilmente non nel modo in cui me lo chiedi, non sono sicuro’. E lei: ‘Io credo in Dio, e Dio non è ovvio: non l’ho mai visto, sentito o toccato. Perché un Dio onnipotente sceglie di non essere ovvio? Credo che sia perché così siamo costretti a cercarlo’. E ha aggiunto: ‘Voglio che mio marito mi cerchi, perciò non devo essere ovvia’.”
Per Safran Foer, il significato della vita non è ovvio: scrivere è il suo modo di cercare una risposta. “Pregare e scrivere sono la stessa cosa”, osserva Keret. “Ciò che mi impedisce di pregare è che trovo difficile credere che ci sia qualcuno che mi ascolta e al quale importi qualcosa; ciò che impedisce alle persone di scrivere è che trovano difficile credere che qualcuno leggerebbe quelle cose e gliene importerebbe qualcosa. È l’atto di fede che compiamo Jonathan e io”.