Sono passate da poco le tre di pomeriggio. Il vagone della metro è pieno, ma c’è abbastanza silenzio. Solo il rumore dei sacchetti di patatine mossi dalle mani agitate di tre o quattro ragazzini si percepisce nettamente sugli altri.
La giornata piovosa non ha aiutato il mio umore, così ho deciso di prendere la metro e farmi portare giù a Lower Manhattan. Non so perché, ma sento sempre che da quelle parti sia concesso girovagare per provare a seminare i pensieri. La mia prima tappa è un posto che voglio visitare da tanto, il cimitero della Congregazione Shearith Israel, la più antica congregazione ebraica del Nord America. In Italia sono abituato a convivere, ormai quasi indifferente, con lasciti millenari. A New York, invece, subisco il fascino delle sue testimonianze ben più recenti, incantandomi anche davanti a tracce di pochi decenni fa.
Scendo a City Hall e, seguendo il GPS del cellulare, arrivo a Chatham Square. Sotto la statua di Lin Zexu, filosofo e politico cinese vissuto tra Settecento e Ottocento, famoso per la sua battaglia contro l’oppio, mi rendo conto di aver superato il cimitero. Ci sono passato davanti senza nemmeno accorgermene. Torno indietro e rimango subito deluso, perché è chiuso. Del cimitero originale, in uso dal 1683 al 1833, è rimasto giusto un frammento delimitato dal marciapiede e dai palazzi che lo circondano. È il primo cimitero ebraico degli Stati Uniti, risalente al 1656. Mi aspettavo un’atmosfera più solenne o comunque di percepire un’energia antica. Speravo in qualcosa che mi mettesse in comunione con lo spirito della città, un rifugio dal senso di estranietà e non-appartenenza da cui mi sento colpito a tradimento. “Tu hai l’ossessione per New York”, mi ha liquidato un’amica qualche giorno fa, forse un po’ perplessa di fronte a un mio sproloquio sul senso di essere qui. Di fronte a questo piccolo cimitero, ora che sento la pioggia finalmente scendere improvvisa con insistenza, comincio a sospettare che abbia ragione.
Scendo di nuovo verso City Hall, con la pioggia che cresce di intensità insieme al vento. L’ombrello spinge imbizzarrito, mi sembra di tenere in mano un aquilone, così lo chiudo e mi alzo il cappuccio, accettando di bagnarmi. I grattacieli sconosciuti mi sembrano onde altissime, davanti alle quali mi sento un navigatore inesperto su una zattera preda della burrasca. Mi aggiro per strade con nomi che ignoro e che si intrecciano tra di loro. Volevo scendere verso la punta dell’isola, con l’idea romantica di camminare nell’antica Nuova Amsterdam, invece ora sono fradicio e rimpiango il rassicurante reticolato di street e avenue di cui dispongo Uptown, sentendo lo sciocco imbarazzo di chi ammette una debolezza borghese. Poi, attraversando la strada e raggiungendo il marciapiede opposto, tra le onde-grattacieli si apre uno spazio che mi fa intravedere, nitida come una montagna di casa, la Freedom Tower. Ora che ho di nuovo un riferimento noto, la frustrazione cresciuta negli ultimi minuti scivola via come la pioggia che mi inzuppa il cappotto. Ho smesso di agitare i piedi sott’acqua e ho sfiorato il fondale, rendendomi conto che si tocca e che posso continuare a nuotare tranquillo.

Persino i grattacieli che mi si alzano attorno ora mi sembrano rassicuranti. La pioggia diminuisce e la temperatura sale. Passo davanti alla Saint Paul Chapel e attraverso il vecchio cimitero che la circonda, assecondando lo spirito sepolcrale del pomeriggio. Mi fermo davanti alla Bell of Hope, la campana che dal 2002, suona ogni 11 settembre per “simboleggiare il trionfo della speranza sulla tragedia”. Dopo la tempesta, ho bisogno di dirigermi verso un porto, così raggiungo il South Street Seaport, dove percorro la strada ciottolata fino alla libreria McNally Jackson. Qui mi godo la ritrovata serenità e mi dico che New York è cambiata, anche rispetto a un anno fa, ma forse può ancora accogliere me e i miei pensieri. Indugio troppo fra i libri, infatti quando esco il sole è già tramontato e il cielo si è scurito. Spinto da un indefinito senso di riscatto, decido di raggiungere l’altra parte dell’isola. Sulla punta di Manhattan la distanza è poco più di un chilometro, ma non appena riprendo a camminare ricomincia a piovere. Forse è un presagio che preferisco ignorare, solo che più vado avanti e più la pioggia e il vento aumentano.
Quando arrivo a Battery Park, di fronte all’attracco del traghetto per Staten Island, le folate d’acqua mi frustano da tutte le direzioni, rendendo nuovamente inutile l’ombrello. Mi ero messo in testa che avrei guardato il tramonto fissando la Statua della Libertà, invece mi affretto sotto un cielo di piombo, che scarica su di me tutta l’acqua di cui dispone. Arrivo a Bowling Green completamente zuppo e mi fiondo giù verso la metropolitana, o forse è il vento o la città stessa che mi ci accompagnano con una spinta, non capisco se severa o bonaria. Seduto nel vagone in direzione Uptown, provo a fermare i pensieri su un taccuino mezzo fradicio.
Non ho idea di cosa cercassi e sono sicuro di non averlo trovato. In giro per New York, mi ostino a trovare risposte, significati e simboli dove non ci sono. Forse dovrei davvero far finta che sia una città, come raccomanda Fran Lebowitz in “Pretend It’s a City”. Tuttavia, se così fosse, i grattacieli non sarebbero onde e tornerebbero grattacieli, i marciapiedi non sarebbero un mare agitato, ma soltanto asfalto scuro e scivoloso. E un pomeriggio piovoso non diventerebbe una storia da raccontare, in cui rifugiarmi quando la noia o il malumore mi fanno temere che New York sia davvero soltanto una città. Ma per fortuna non è così, giusto?