RECENSIONE
Un film distopico, drammatico e fantascientifico, una parabola apocalittica sulla distruzione dell’ambiente che, con l’aiuto di azione, ritmi ed emozioni sempre in crescendo, coinvolge la coscienza dello spettatore: dall’ecologia alla politica, dai valori sociali ai sentimenti.
Questo è Mondocane (presentato lo scorso anno alla Mostra del Cinema di Venezia, nella sezione Settimana Internazionale della Critica), il debutto nel lungometraggio di Alessandro Celli, già premiato nel 2008 con il David di Donatello per il corto Uova, sulle violenze domestiche, ma a cui era sempre stata negata la possibilità del grande debutto, relegandolo alla regia di episodi delle serie-tv per giovani, quali Jams e I cavalieri di Castelcorvo(debutto in ritardo perché non ha amici politici? Chissà! Non vedo altra spiegazione!).
Prima di continuare, comunque, un dovuto ringraziamento all’illuminato regista e produttore Matteo Rovere che – con un atto di lungimiranza che ricorda l’acume produttivo del grande Franco Cristaldi – ha visto in Celli un regista a cui dare finalmente fiducia con la sua casa di produzione Groenlandia, dimostrando in tal modo ancora una volta (dopo Leonardo D’Agostini, con Il campione, Simone Godano, con Croce e Delizia e Marylin ha gli occhi neri, e Sydney Sibilia con L’Incredibile Storia dell’isola delle Rose) la sua prolifica attenzione a proposte alternative, di autentica rottura con i tanti schematismi che ancora imbrigliano la cinematografia italiana (la Groenlandia ha anche inaugurato nel gennaio 2021 Lynn, una sezione dedicata esclusivamente al cinema diretto da donne).
E veniamo a Mondocane. Un film, dicevo, distopico che ci presenta un’umanità errante, aggressiva, alla disperata ricerca di potere dopo la chiusura dell’Ilva, l’acciaieria più grande d’Europa ma anche la più inquinante. Ancora una volta il cinema italiano ci presenta un mondo disadattato, sregolato, come i recenti lavori post-apocalittici La terra dei figli di Claudio Cupellini e Anna di Niccolò Ammaniti.
In un futuro non molto lontano, la Taranto del film è una città fantasma cinta dal filo spinato e in cui nessuno, nemmeno la Polizia, si azzarda ad entrare. Mentre la Taranto Nuova vive nell’ovatta, la popolazione abbruttita della città vecchia cerca invece di sopravvivere dopo la “grande evacuazione” resa necessaria non solo dalla chiusura dell’acciaieria ma anche, soprattutto, dalla mancata bonifica dei terreni inquinati. Qui il sistema sociale è organizzato in gruppi e fazioni, si può essere formiche (gang d’assalto capeggiata dal carismatico Testacalda (Alessandro Borghi), o orfani (bambini irregimentati, tra ginnastica all’aperto e lavoro minorile), o, al limite, poliziotti. Sono rimasti i più poveri che lottano per la sopravvivenza, mentre la gang delle Formiche si contende il territorio con un’altra gang (gli Africani, poco però delineata nel film). Due orfani tredicenni, cresciuti insieme, sognano di entrare in quella banda: Pietro (Dennis Protopapa), detto Mondocane per aver superato incendiato, nella prova d’accettazione nella gang, un negozio di animli dal nome omonimo, impone Christian (Giuliano Soprano) al gruppo che però non lo vuole e lo deride soprannominandolo Pisciasotto perché durante le sue crisi epilettiche non riesce a trattenere l’urina. L’amicizia con un’orfanella (Ludovica Nasti), che lavorava proprio nel negozio di animali distrutto e la rivalità tra i due ragazzi cambierà tutto mettendo a rischio l’amicizia e tutto quello in cui credono. O forse non cambierà nulla. Sarà Pietro, apparso inizialmente come il più fragile e sensibile, a dimostrare la stoffa di leader.
Alessandro Celli e il co-sceneggiatore Antonio Leotti tessono una tela che a poco a poco, grazie a colori dell’animo sempre diversi, avvolge lo spettatore in un spirale di emozioni che fanno riflettere, mai messe lì solo per solleticare la nostra approvazione. L’ingenuità e dolcezza, assai dolorosa, di un’adolescenza tradita e sfruttata si alterna ad un ambiguo obiettivo criminale (si può fare del male anche a fin di bene?): il film non perde tempo e ritmo con dettagli sul come il mondo e i ragazzi siano giunti a questo punto e spingerci così a ragionare sulle cause (l’Italia è devastata da un disastro ambientale, sociale e politico ormai irrimediabile, basta questo) ma offre solo un presente, metaforico su cui sta allo spettatore riflettere, trovare i tasselli giusti per ridare un senso e una prospettiva alla loro e alla nostra vita.
E che il mondo attuale sia solo lo specchio di contraddizioni latenti e pericolose sta nel nome del gruppo di giovani criminali: le Formiche, cioè animali laboriosi, efficienti, produttivi, ostinati, solidali e frenetici che si contrappongono a politici che da molti anni parlano di risolvere il problema dell’Ilva e di bonificarne l’area ma non fanno nulla! Un potere corrotto metaforicamente ben interpretato da Testacalda–Alessandro Borghi: rappresenta un’opportunità per i ragazzi ma allo stesso tempo non si fa problemi nel corrompere la loro purezza.
Mondocane è non solo un film sul valore dell’amicizia in un mondo ingiusto, sull’importanza di farci carico dell’ambiente in cui viviamo e dare un senso ai valori interpersonali, ma anche una sferzante metafora socio-politica dei nostri tempi.
Un film, quello di Celli, che sembra insomma intonarsi con diversa cinematografia nostrana (da Gomorra a La paranza dei bambini, a La terra dell’abbastanza) che negli ultimi anni, volendosi togliere dalle spalle l’eredità della commedia, riecheggia altri storici film distopici: da Oliver Twist a– Mad Max-Oltre la sfera del tuono, da Blade Runner aWaterworld).
Tutto riuscito? Quasi tutto (alcuni brevi salti nel montaggio), ma complessivamente è senza dubbio un prodotto qualitativamente accattivante.
INTERVISTA ESCLUSIVA
Quando è nata in te la passione per il cinema e come sei arrivato a Mondocane?
“E’ nata da bambino, con mio papà, canadese, che per perfezionare il mio inglese mi portava a vedere i film in lingua originale al cinema Pasquino, a Roma. Ci andavamo quasi tutti i giorni. Ho subito amato la possibilità di raccontare delle storie, come nei film. Ho studiato economia ma poi mi sono iscritto alla London Film School e quello è stato un momento molto importante della mia vita perché lì ho capito che volevo che il cinema fosse parte importante della mia vita. Il processo è stato lungo, fino a quando il produttore Matteo Rovere, che sta cercando da tempo di rivoluzionare un po’ i “canoni” cinematografici italiani, specie quelli riguardanti i debutti dando spazio a tematiche creative nuove, ha deciso di aiutarmi con la sua compagnia Groenlandia. Matteo è coraggioso, preparatissimo e sempre aperto alle novità”.
E veniamo al film, dai tanti contenuti e davvero accattivante. Testacalda-Alessandro Borghi parlando ai ragazzi del suo gruppo, Le Formiche, dice che è stata la curiosità a salvarlo quando viveva in un orfanatrofio: è successo anche a te talvolta? Quello di Testacalda vuole essere anche un messaggio ai giovani d’oggi, sempre più “cellulare-dipendenti”?
“Testacalda è un personaggio complesso, dalle molte sfaccettature: è un self made man. Chiaramente rappresenta il male in questa storia, ma non a senso unico. E’ stato interessante “costruire” assieme a Borghi questo personaggio contraddittorio, che si alterna tra l’essere come i ragazzi lo vogliono, cioè una figura paterna che li aiuta a sopravvivere, e l’essere però anche un loro manipolatore che li controlla e utilizza la sua cultura per tenere a distanza i ragazzi. Ho usato la parola curiosità perché è quella che meglio ti porta alla cultura e ti può dare quel minimo che ti può servire in un mondo talmente ignorante da dimenticare cos’è un crocifisso (è quanto pescano sott’acqua i due giovani, Pietro e Cristian, all’inizio del film, ndr). Volevo semplicemente far capire che si vive in un posto che non ha alcun modo di darti informazioni, di insegnarti qualcosa, anche la cosa più banale può farti capire a cosa la gente che ti circonda possa credere o no. Il fatto che i due ragazzi portino il crocifisso – di cui loro stessi non ne conoscono il significato – fin dentro il gruppo, e gli altri giovani non sappiano cosa sia, si presta volutamente ad una libera interpretazione, per certi versi anche cattolica perché c’è infatti la redenzione di uno e la dannazione dell’altro. La parola curiosità voleva anche essere un invito ai giovani – non pontificante, per carità – a non rinchiudersi nel loro mondo perché l’adolescenza è un periodo della vita che passa in fretta, specie in un mondo disperato, e se non si hanno sogni e curiosità da voler sviluppare, se non si coglie che non siamo tutti uguali, si perde il treno del nostro futuro. In tutto questo c’è comunque l’elemento importantissimo del tradimento”.
Nel film si coglie infatti l’attenzione all’importanza anche dei valori interpersonali, come, per esempio, l’amicizia: come la definisci?
“E’ la forma d’amore più duratura che c’è. Ed è una cosa che riguarda tutti noi, è molto universale: tutti abbiamo amici carissimi, eccezionali, che magari ci hanno per certi versi cambiato la vita. E’ un sentimento, un valore molto forte e l’abbiamo introdotta nel film come messaggio per dire che se finisce l’amicizia, la voglia di rapportarsi agli altri, finisce anche a poco a poco la società”.
Mondocane ci mostra un mondo giovanile alla disperata ricerca di un proprio posto, di un perché della propria esistenza, una tematica questa presente anche in diversi tuoi lavori cinematografici o televisivi: quali son i pregi ma anche le difficoltà di lavorare con attori giovani?
“La bellezza, il pregio lavorativo è che molti giovani non sono attori, non sono impostati tecnicamente e quindi hanno una grande spontaneità, una grande voglia di fare e sono soprattutto veri nelle loro emozioni: elemento quest’ultimo molto importante in un film. Lavorando con loro hai sempre uno scambio, un costo beneficio che vale la pena”.
Nel film diversi dettagli del mondo dei ragazzi, della Taranto post-apocalittica non sono stati tecnicamente spiegati ma solo accennati: perché questa scelta?
“E’ un mondo complesso che per me e Antonio Leotti, che ha scritto con me la sceneggiatura, non c’era tempo di raccontare, con il rischio di farne un polpettone, e perché spesso tante cose si capiscono nella loro attualità anche da piccoli segni: uno spettatore, per esempio, mi ha detto che, senza averlo fatto vedere nel film, si capisce che la cicatrice che Borghi ha sulla testa non è dovuta ad uno scontro armato ma ad un’operazione chirurgica. C’è un mondo che è chiaramente cambiato, ma non c’era la voglia di presentare tanti dettagli con il rischio di non avere magari più al centro della storia i due adolescenti”.
Ci sarà un sequel?
“Certo, se si creano le condizioni perché no? Io sarei pronto. Comunque adesso sto pensando più che altro a provare con una storia differente, ambientata magari non nel futuro. Sempre con Matteo Rovere, con un film che offra magari una novità della medesima formula”.
Con i tanti nuovi produttori cinematografici (da Netflix ad Amazon Prime, ecc), l’acquisizione della cultura cinematografica sta scambiando, e la pandemia ha accentuato il fenomeno, ma la sala resta a mio giudizio molto importante, anche come valore di strumento di socializzazione, di condivisione diretta delle emozioni: quale pensi sia il compito degli operatori del mondo del cinema perché si torni a privilegiare la necessità dei film in sala?
“Concordo. Penso che gli operatori del mondo del cinema debbano assolutamente fare qualcosa perché si torni all’uscita dei film in sala. Per il bene del cinema dobbiamo assolutamente trovare una soluzione”.