Occhi azzurri e abito elegante. Quando Fabio Finotti ci accoglie all’Istituto Italiano di Cultura, l’atteggiamento è di un vero padrone di casa.
Il Direttore è a New York da un anno, ma si muove bene tra le tante realtà culturali italiane presenti in città.
Lo abbiamo lasciato per ultimo, in questa serie di articoli dedicati a chi del patrimonio tricolore si fa promotore, perché è il diretto rappresentante delle istituzioni. La struttura che dirige, nata nel 1961, è stata infatti fondata dal Governo Italiano e opera sotto la guida del Ministero degli Affari Esteri, del comitato consultivo e del suo personale, per promuovere gli scambi culturali tra Italia e Stati Uniti tra arte, discipline umanistiche, scienza e tecnologia.

Finotti, padovano di nascita, New York non se l’aspettava cosi. Così come? “Intensa, coinvolgente e affascinante”.
“Abbiamo una grande libertà di movimento, anche dal punto di vista logistico. Abbiamo modificato la struttura in alcune sale, stiamo pensando di liberare un intero piano del palazzo per ospitare un bookstore e un caffè italiano”.
L’importante, in ogni progetto o iniziativa, è avere una visione chiara. Non focalizzarsi dunque sulle opportunità date da ogni singolo evento, ma costruire passo passo un percorso che abbia un obiettivo ampio. Il suo è chiaro: sottolineare l’apertura multiculturale dell’Italia sia nella storia che nel presente. “Produrre mostre, eventi e seminari che illustrino la ricchezza dei rapporti che l’Italia ha coltivato nel tempo, arrivando poi a ciò che più mi sta a cuore dei giorni nostri: lo sviluppo dell’italicità”. Un neologismo creato per definire l’Italia che nasce e cresce al di fuori dei suoi confini territoriali.
“Esistono più culture e linguaggi italiani – racconta – ed è per questo che credo sia fondamentale uscire dall’idea del nazionalismo ottocentesco. Di ‘Italie’ all’estero ce ne sono molte. C’è quella di tradizione più alta, dove ad esempio si conoscono benissimo Dante, Petrarca, Machiavelli e il futurismo. Ma non possiamo negare l’esistenza e la vitalità di un’Italia più legata alla cultura popolare e agli italoamericani, che pur non avendo lo stesso grado di conoscenza letteraria, hanno una perfetta competenza della grammatica sociale”.

D’altronde, Finotti, di cultura italiana negli Stari Uniti si è sempre occupato. “Nel 2000 ho fatto il concorso per la cattedra di Letteratura italiana all’università della Pennsylvania. Sono rimasto lì per molti anni come Direttore del Center for Italian Studies e poi, quando il Ministero degli Esteri ha aperto la possibilità di inviare una manifestazione di interesse per questo Istituto, mi è parsa la continuazione logica del percorso fatto in Pennsylvania. Da lì è partita tutta una serie di selezioni che alla fine mi ha condotto dove sono oggi”.
Un incontro, quello con New York, che per Finotti è arrivato proprio nel momento della pandemia, quando la carne della città era ancora viva sotto le ferite del lockdown. “New York è una grande metropoli di incontri e perciò, quando gli incontri sono diventati virtuali, ha perso la sua anima. In quel periodo, molte persone hanno scoperto le possibilità legate alla comunicazione online. È cambiato il paesaggio umano e sono scomparse tantissime realtà quotidiane, come i piccoli ristoranti etnici o i locali frequentati dagli impiegati durante la pausa pranzo”.

In quel contesto, l’Istituto è stato costretto ad adattarsi e ha fatto nascere una piattaforma online. “Si chiama ‘Stanze Italiane’ ed è stata vitale per noi. Abbiamo potuto dare luce agli eventi in Istituto, diffondendoli attraverso la rete e permettendo anche un utilizzo più razionale delle risorse tramite la condivisione di alcune iniziative con altri centri. Abbiamo poi potuto sostenere molti artisti italiani che non lavoravano e affrontavano un periodo difficile. Gli abbiamo dato una mano promuovendoli qui, sul territorio americano”.
Una vetrina non rivolta soltanto agli italiani in America, ma a tutta la comunità. “L’Istituto, come forma della diplomazia culturale, deve parlare a tutta New York. Certamente un occhio di riguardo è per gli italiani, ma non possiamo avere loro come unici referenti, dobbiamo mescolare le etnie e le eredità”.
Mescolare per arricchire, è questa la parola d’ordine, da seguire nella difesa di un’identità e un marchio, il Made in Italy, così allettante agli occhi degli stranieri.
“L’istituto ha un valore importantissimo, perchè l’Italia è sempre più promotrice di un’idea, un orizzonte e un modo di vivere. Noi non vediamo solo un prodotto, ma una cultura intera”.