Stefano Albertini dice di volerla spersonalizzare da se stesso, la Casa Italiana Zerilli-Marimò della New York University, ma molti continuano a identificarla con lui. Sono cose che capitano se per quasi 25 anni, dal 1998, ne sei il Direttore.
Fondata nel 1990 dalla Baronessa Mariuccia Zerilli-Marimò, la Casa nasce e si sviluppa con l’obiettivo dichiarato di promuovere la cultura offrendo un programma di eventi legati agli studi italiani, tra cui lingua, letteratura, cinema, musica, teatro, arti visive, politica, economia e stile di vita. La missione è ben precisa: creare una comunità.
Albertini, nato a Bozzolo (Mantova) e laureato in lettere a Parma prima di conseguire un PhD a Stanford, con i suoi eventi questo obiettivo lo ha portato a termine. La Casa è stata a lungo un centro di ritrovo per chiunque volesse trovare persone con cui fare amicizia e condividere interessi. Un rifugio sicuro in una città, New York, che ci mette poco a farti sentire solo.

Poi è arrivata la pandemia. Dal 2020 i tanti appuntamenti in presenza, che popolavano i corridoi e il teatro della Casa, si sono trasformati in incontri online. Lezioni, letture, confronti: il virus ha trovato nella tecnologia una barriera troppo alta da superare e così l’utilizzo del video è diventata routine. Ancora oggi, nonostante Manhattan stia rifiorendo con l’arrivo della primavera, la Casa è costretta a organizzare videoconferenze e rimane al momento chiusa al pubblico esterno alla NYU.
Tra le sue stanze, giace solitaria la mostra “High-rise New York”, in cui si celebra il ventesimo anniversario dell’attentato alle torri gemelle con gli scatti di Fulvio Roiter. Vedere New York così, prima dell’11 settembre 2001, fa sempre un certo effetto. Trentacinque fotografie a colori scattate tra il 1984 e il 1998 ricordano la città com’era una volta, il suo skyline fin troppo riconoscibile che ora non esiste più. La mostra, però, non è un cenno nostalgico, ma vuole ricordare, nel momento in cui la pandemia si affievolisce, come la Grande Mela e i suoi abitanti sappiano ritrovare la vita dopo la morte e la luce dopo un grande buio.

È proprio questo lo spirito con cui Albertini, la sua squadra compatta e affiatata di collaboratori e alcuni studenti d’italiano della NYU che fanno a gara per poter fare un’internship alla Casa, guardano al futuro. “Abbiamo molta voglia di rivedere la nostra gente. Uscirà l’anno prossimo la nuova traduzione dei Promessi Sposi, che negli Stati Uniti non sono tanto noti e anche nei programmi universitari sono spesso assenti, a differenza di Dante e Machiavelli (di cui il Professor Albertini è un esperto, ndr). Poi avremo una mostra di un fotografo americano contemporaneo che si è ispirato proprio a Manzoni andando a immortalare durante la pandemia i luoghi descritti nel romanzo. Saremo anche impegnati nella produzione di un’opera di Roberto Scarcella, un adattamento dell’Orlando Furioso di Ariosto e ospiteremo un grande convegno sulla Divina Commedia, dopo che per 10 anni abbiamo portato a New York alcuni degli studiosi danteschi più importanti e affermati”.

L’obiettivo principale, infatti, è quello di ricreare il rapporto con la comunità che la Casa per trent’anni si è impegnata a costruire. “Prima del covid – racconta Albertini – c’erano persone che ogni giorno venivano a trovarci, per il semplice piacere di stare insieme e conoscere qualcuno con cui scambiare quattro chiacchiere”.
Anche durante i mesi più duri della pandemia, quelli del lockdown, gli incontri organizzati da remoto sono serviti a molti per spezzare la monotonia delle giornate e sfuggire alla morsa della solitudine. Ora, è tempo di tornare a vivere gli eventi in presenza, respirare l’atmosfera di una Casa che trasuda cultura, sedersi nel cortile interno e lasciarsi baciare dal sole, mentre il quadro della Baronessa osserva dall’alto i frutti della sua donazione.
Al 24W della 12ª Strada, l’Italia si racconta in tutte le sue forme. Anche quelle più nascoste e particolare, che persino gli italiani DOC a volte non conoscono.

Albertini cita un evento organizzato un paio di anni fa sulla comunità Arbëreshë, gli albanesi arrivati in diverse città dell’Italia meridionale già a partire dal medioevo. Hanno mantenuto intatta la loro lingua, un albanese estremamente elegante, la loro cultura e la loro religione, ma allo stesso tempo sono a tutto tondo integrati in Italia e possono vantare esponenti illustri che arrivano sino alla Corte Costituzionale. “Raccontando la loro storia, vogliamo far capire agli americani che l’Italia non è un monolite tutto uguale, ma è fatta di tantissime realtà come questa. Il nostro scopo è quello di far scoprire la molteplicità della cultura tricolore”. Una parte del Paese di cui nessuno parla mai, che Pier Paolo Pasolini definiva “un miracolo antropologico” e che grazie al lavoro della Casa è stato riscoperto.
Albertini è fiducioso: questo è il momento giusto per rinascere dalle ceneri di un biennio che ha profondamente cambiato New York e, con lei, la vita dei suoi abitanti.
“È stato frustrante, ma ripartiremo”. E la New York University tornerà a popolarsi di italiani, che in quei corridoi a lungo rimasti vuoti potranno di nuovo sentirsi a Casa.
Episodio 2: Intervista a Nicola Lucchi, Center for Italian Modern Art