Naomi Beckwith, 44 anni, ha conquistato New York. Grazie alla sua visione fresca e onnicomprensiva dell’arte, ma anche per le sue origini afroamericane, attraverso cui riesce a comunicare un etnocentrismo artistico capace di rivolgere messaggi trasversali e rilevanti, è la nuova capo-curatrice del Guggenheim Museum. Questioni di identità, potere, politica e pensiero concettuale sono centrali nella pratica di Beckwith, che è stata plasmata dalle sue esperienze accademiche.
Nata e cresciuta nel South Side di Chicago, ha raggiunto la maggiore età negli anni ’80 sulla scia del movimento Black Power, frequentando una scuola pubblica sperimentale che ha favorito alti risultati accademici dei suoi alunni, il 98% dei quali erano afroamericani. Imparare la storia dei neri è stata un’esperienza profondamente formativa: “Non avevo idea che, finita quella scuola, la storia dei neri non sarebbe più stata parte della mia educazione”, ha detto.

La prima mostra “seria” che ha visto e che le ha cambiato profondamente la percezione dell’arte è stata Odilon Redon: Prince of Dreams, 1840-1916, organizzata da Douglas Druick presso l’Art Institute of Chicago nel 1994, quando era ancora al college, e che l’ha portata a conseguire la laurea presso la Northwestern University e un master presso il Courtault Instituite of Art di Londra. Nel 2018, è diventata la curatrice senior del Museum of Contemporary Art Chicago, dove si è concentrata sui temi dell’identità e sulle pratiche multidisciplinari. È grazie a lei se sono state allestite mostre su artiste e artisti afroamericani e africani poco visibili, ed è merito suo se l’avanguardia nera ha trovato spazio presso le sale del museo.
Nota è anche la sua collaborazione con lo Studio Museum di Harlem, importante istituzione di New York dedicata agli artisti di discendenza africana, dove ha curato progetti relativi alle minoranze estetiche e al ruolo nella società delle donne nere. “Qual è il concetto di négritude nell’arte? Molte delle mostre che ho allestito hanno cercato di trovare le risposte a questa domanda”, ha detto. Tutto ciò che la esaspera lo difende appassionatamente: “Lynette Yiadom-Boakye è un’artista nata in Gran Bretagna. Ma le persone si riferiscono sempre alle sue origini ghanesi. Perché non la considerano un’artista britannica?”.

Ha la reputazione di riconoscere i nuovi talenti, e concentrarsi sulle storie che nel mondo dell’arte altrimenti non verrebbero raccontate, ma oggi è il suo stesso ruolo – di prima capo-curatrice nera – nel Guggenheim Museum che racconta l’unicità della sua storia. È stata assunta tre mesi dopo le dimissioni del precedessore Nancy Spector, inizialmente tacciata di razzismo per poi, dopo un’indagine indipendente condotta esaminando più di 15.000 documenti e portando avanti un’ampia gamma di interviste, essere completamente assolta.
Il direttore del museo, Richard Armstrong, non ha pensato a nessun altro per supervisionare le collezioni, le mostre, le pubblicazioni e i programmi curatoriali del museo, oltre che occuparsi di fornire le direttive al network internazionale delle sedi sparse nel mondo.

Quando si parla del suo storico arrivo, in molti si sentono condizionati a interrogarsi sulle ragioni che sono alla base della decisione, ma forse sarebbe bene concentrarsi più sul perché questa donna intraprendente, con una chioma fitta di ricci afro che sfidano le convenzioni e la forza di gravità, sia la persona giusta, come ha riportato in un comunicato lo stesso Armstrong: “È molto esperta sui temi dell’identità e, in particolare, sull’arte multidisciplinare. Dobbiamo pensare alla crescita del Guggenheim per i prossimi anni, quindi deve essere una persona con enormi capacità”.
Beckwith aiuterà il museo a diventare un ambiente di lavoro più equo. Non è un caso se la nomina è arrivata anche dopo le polemiche sulla presenza di “troppi bianchi nello staff ”. Polemiche scatenate lo scorso anno dall’invio della lettera collettiva a firma del “Curatorial Department”, gli specialisti del museo, che chiedevano ai vertici dell’istituzione “cambiamenti immediati e radicali per correggere un ambiente di lavoro che lascia spazio al razzismo, la supremazia dei bianchi e ad altre pratiche discriminatorie”. E già nel 2019, la curatrice ospite della mostra dedicata a Jean-Michel Basquiat, Chaédria LaBouvier, che è nera, aveva accusato il Guggenheim di trattamento razzista.
Alla luce dei fatti, il Guggenheim Museum e Naomi Beckwith rappresentano l’unione ideale. Con nuovo impulso e una lettura diversificata a quella che fino a oggi è stata un’istituzione total white (o quasi), il Guggenheim non può che trarre vantaggio dagli strumenti unici di Beckwith, per inaugurare il necessario riallineamento delle sue priorità istituzionali. “Non avrei accettato la posizione se non fossi certa che il museo abbia intrapreso un percorso di ‘guarigione’, cosa che sta avvenendo”, ha dichiarato Beckwith.

La trasformazione del Guggenheim fa parte di un grande cambiamento che vede coinvolte le istituzioni culturali statunitensi, a partire dal 2018. Per decenni i principali musei d’arte hanno di fatto escluso le persone di colore – dirigenti, curatori, artisti – a meno che non si trattasse delle posizioni lavorative per il personale di sicurezza. E New York è stata la prima ad affrontare il tema della diversità nell’ambiente artistico con nuova urgenza. “Vedo un cambiamento”, affermava Beckwith, nel 2018, in un’intervista al New York Times, non appena venne promossa curatrice senior al Museum of Contemporary Art di Chicago.“I musei devono assicurarsi che i curatori di colore si sentano abbracciati e incoraggiati”, aggiungeva.
E adesso è proprio lei il simbolo dell’evoluzione verso l’inclusione nel mondo dell’arte, lasciandosi alle spalle i pregiudizi e puntando su una programmazione che comprenda più artisti appartenenti alle minoranze o a gruppi discriminati. Non a caso Melvin Edwards – riferendosi a una sua installazione di filo spinato – le disse : “A volte ti taglieranno, e sanguinerai, ma devi essere preparata perché la ricompensa di aver camminato attraverso quel filo sarà grande, non solo per te, ma per la storia”. E Naomi Beckwith, con la sua nomina, ha già scritto quello che è l’inizio di una nuova storia del famoso museo di arte moderna e contemporanea della Grande Mela.