Cosa spinge 5.000 homeless dell’attraente New York City, a scendere nei tunnel sotterranei, al fine di vivere in una vera e propria città underground tutta loro, con tanto di impianti idrici ed elettrici? La follia borderline o l’impossibilità, magari, di aderire (rifiutando) a modelli e schemi culturali imposti da una determinata, quanto rigida, piramide sociale?
E se questa piramide sociale è dominata dal soldo a 360° (il che tradurrebbe il concetto stesso di “successo” quale esclusivo sinonimo di “arricchimento economico”), che tipo di meccanismo reattivo questo potrebbe scatenare nelle menti di chi, invece, non ha mai goduto di una singola opportunità di scalata sociale?

Negazione, rifiuto, alienazione volontaria? O peggio, odio, rabbia, vendetta, crimine, omicidio?
Ma soprattutto, chi ha rifiutato chi, per primo? Il sistema sociale o l’homeless pronto a costruire una città sotterranea per sfuggire alla propria miseria?
L’autore di uno degli studi più noti di sociologia delle malattie mentali e personalità borderline, Roger Bastide (1965), ci offre un’interessante retrospettiva, circa l’analisi della malattia mentale nel contesto sociale d’Occidente: nel suo volume “Sociologia delle malattie mentali”, lo studioso è infatti convinto che la patologia, più che avere cause sociali, si contestualizzi come un fenomeno sociale vero e proprio, dotato di un preciso simbolismo, come hanno ben dimostrato ricerche di etnopsichiatria.

C’è da chiedersi: in questo accurato dipinto analitico, dove vanno collocati, ad esempio, quegli homeless mentalmente borderline delle grandi metropoli suburbane, come New York City? In altri termini, che tipo di settaggio bisognerebbe conferire, per ipotesi, ai famosi e squilibrati Uomini Talpa, popolanti gli intestini metropolitani della Grande Mela?
Ecco che il tessuto di studi ed analisi in merito prende ad allargarsi e ad intrecciare esperienze e testimonianze derivanti dall’antropologia, dall’etnologia, fino alla psichiatria.
Uno schieramento di studiosi pare pronto a spergiurare che la patologia mentale di personalità borderline è assolutamente relativa, in quanto comportamenti che potrebbero sembrare deviati in un determinato contesto sociale, apparirebbero, invece, del tutto normali in un altro, e così via.

Quì entra subito in gioco la comparazione dei cosiddetti parossismi culturali: a sostegno delle loro tesi, infatti, questi studiosi azzardano un paragone, tra alcune delle più classiche patologie, come la schizofrenia o la psicosi, con i comportamenti parossistici di specifici contesti e gruppi sociali: si pensi al Koro delle popolazioni malesi, al loro Latah e Amok, al Windingo di alcune tribù indiane del Canada, fino ad arrivare alla tarantola pugliese e ai riti esorcistici da possessione soprannaturale, tanto noti al nostro Occidente.
È stato proprio il grande Roland Jaccard a scrivere: “là dove la psichiatria non esiste, la pazzia non è una malattia, ma solo una devianza rispetto alla norma sociale”.
Sulle orme di Jaccard, il grande interrogativo, a questo punto, pare ovvio; parossismi societari vs personalità borderline singole: patologie o solo “frutti espressivi alternativi” della società, ossia deviazioni rispetto alla norma di un determinato contesto sociale? Squilibrati o pecore nere e “conseguenze inevitabili” di un contesto socio-culturale, forse, troppo rigido e crudele?

L’antropologo Merton cerca di dare una risposta ad interrogativi simili. Lo studioso si focalizza sul concetto di discrepanza, all’interno delle società Occidentali, tra i modelli culturali prescritti, quali obiettivi noti per la realizzazione dell’idea stessa di successo personale, e i mezzi istituzionali messi a disposizione per raggiungere un tale obiettivo. Naturalmente, la rappresentazione dell’assunto, in merito all’essenza assolutamente fallimentare ed inconsistente dei mezzi istituzionali ossequianti la causa, salta subito all’occhio. Se la società sentenzia che tutti debbano ambire al successo economico, non tutti avranno le carte in regola per raggiungerlo con mezzi leciti.
Per tornare a Jaccard, cosa occorre fare, quindi, per convivere con un sistema sociale siffatto? Esiste un’alternativa che permetta una non aderenza al mezzo illecito? La risposta dello studioso appare chiara ed univoca: deviare dalla norma imposta.
Da Merton a Jaccard, facciamo nuovamente ritorno a Bastile e alla sua visione alternativa dell’homeless, percepito come una sorta di eroe del nostro tempo, un essere coraggioso, un individuo che ha avuto la forza e l’ardire di deviare, di rifiutare le catene sociali, a cui l’uomo impettito, assetato di successo, pare essere condannato.

Gli Uomini Talpa si trasformano, così, secondo l’ottica dello studioso, nei ribelli del nostro tempo, incarnando il concetto stesso di rivoluzionario romantico.
Raccogliamo alcune dichiarazioni al riguardo, come quelle di Bryan, definitosi un “Talpa part-time”, un vero e proprio “deviato Jaccardiano”:
Bryan ha gli occhi buoni e un sorriso spiazzante: il suo sguardo innocente, regala subito la netta percezione di quanto quest’uomo possa essere disarmante. Bryan ha un passato da alcolizzato, ma confessa di aver smesso da un anno, proprio grazie alle comunità dei tunnels, i cosidetti “buoni”, in perenne lotta con “i cattivi”, anch’essi abitanti gli intestini metropolitani. Sarebbero stati proprio i “buoni”, a tirare fuori quest’homeless dal giro dell’alcool. Bryan è profondamente innamorato: la sua lei si chiama Katia, una bellissima clochard di origini ucraine, il cui grande merito è stato proprio quello di introdurre l’uomo nel mondo dei Talpa newyorkesi.
Di fronte a testimonianze come questa, appare subito chiaro, che il confine tra pazzi borderline e vittime “deviate” di un sistema sociale crudele, prende a farsi sempre più sottile, fino a lanciare il proprio “urlo” affamato, riempendo il vuoto dell’indifferenza, di graffi sordi e lancinanti.

La giornalista americana Jennifer Toth, ci regala queste parole, all’interno nel suo libro/inchiesta a proposito degli Uomini Talpa: vita nei tunnel sotto New York City:
“Vanno sottoterra per molte ragioni obiettive. La penuria di alloggi e l’inadeguatezza dei sussidi sono solo due di esse. Alcuni scendono per sicurezza, per sfuggire ai ladri, ai violentatori e alla crudeltà diffusa. Scendono per sfuggire alla legge, per trovare e usare droghe e alcool senza essere disturbati dalla famiglia, dagli amici e dalla società. Alcune famiglie vanno nei tunnel per evitare di dare in adozione i loro figli. Altri, vergognandosi della povertà, dell’evidenza del loro fallimento nella società e dell’aspetto miserabile, ci vanno per evitare di vedere la propria immagine riflessa nelle vetrine dei negozi cui passano davanti. Certi sprofondano nei tunnel per degenerare lentamente, al riparo dalla gente di superficie, in un posto che considerano casa propria”.
Non è proprio della stessa opinione della Toth, invece, l’ufficiale Richard Johnson, un poliziotto che collabora a stretto contatto con il Department of Homeless Services di New York. Richard è un uomo fiero e tutto d’un pezzo; la sua espressione apparentemente impenetrabile, svela, in realtà, la profonda e sincera dedizione con la quale quest’uomo svolge il proprio lavoro: il poliziotto confessa di aver avuto a che fare molte volte con i Talpa della città, ma gli epiloghi non sono mai stati piacevoli.

Una notte di pochi mesi fa, Richard ed un collega riescono a bloccare il tentativo di furto di un paio di homeless. Il negozio scassinato si trova in centro, proprio dietro Time Square; loro sono una coppia di clochards: lei viene caricata sulla volante del collega, mentre l’uomo prende posto sul sedile posteriore della volante di Richard. Il poliziotto confessa, disgustato, che durante il tragitto Time Square/Caserma, l’homeless avrebbe cominciato a supplicarlo di lasciarlo andare, considerando soprattutto la gravidanza della compagna, accomodata all’interno dell’altra volante. All’impassibilità di Richard, l’uomo avrebbe reagito con un tentativo di corruzione, arrivando ad offrirgli della cocaina, in cambio della propria libertà.

Richard ci tiene a continuare il suo racconto dettagliato: la leggera nota di alterazione che accompagna il suo timbro vocale, tradisce subito una calma del tutto apparente. Il poliziotto ricorda un’altra avventura notturna, in cui è stato costretto ad imbattersi nuovamente nei Talpa della città.
È una notte imprecisata: una donna chiama la polizia, lamentando di essere stalkerata, in strada, da due misteriose figure maschili. La donna comunica la sua location e poi corre, di corsa, a casa. Richard e altri due colleghi si precipitano sul posto. Perlustrano l’area indicata dalla donna, che pare deserta, ad eccezione di due homeless vaganti, che vengono, quindi, subito acciuffati e portati in Caserma, dove passeranno la notte, in attesa di accertamenti.

Il giorno dopo, la donna viene convocata in Centrale, per capire se riesce ad indentificare, nei due homeless, i loschi figuri della notte prima, ma questa nega fermamente, dicendo che quelli parevano molto diversi dai presenti clochards. I due homeless vengono, quindi, rilasciati in giornata, ma Richard confessa, con assoluta convinzione, di aver visto uno dei due homeless appostato ad osservarlo, sotto il palazzo di casa sua, al rientro a casa, la sera.
Il poliziotto nota la figura appostata e si avvia subito, di corsa, verso questa, che ovviamente se la dà a gambe, veloce come il vento; scomparsa nel nulla, con grande disappunto di Richard.
Dichiarazioni forti, che potrebbero essere assoldati come esilaranti incipit cinematografici in piena regola.

Quali lenti decidiamo di indossare, allora, al cospetto di individui simili? Secondo quale fisionomia emotiva ci risolviamo di percepirli? Il parossismo culturale e la relatività della follia di Bastile e Jaccard, possono rappresentare contributi sufficienti ad eliminare il concetto di insanità mentale, che molto spesso accompagna la descrizione sbrigativa e subdola di queste figure?
Oppure dichiarazioni forti e vissute, come quelle di Richard Johnson, potrebbero aprire un’ulteriore breccia di riflessione, all’interno di un mosaico antropologico molto più impervio e sfaccettato di quanto già non appaia?
L’interrogativo resta aperto. La risposta dipenderà dal tipo di occhi con cui decidiamo di osservare tutto ciò. È quì che risiede il fascino.