Il cinema Elinor Bunin Munroe Film Center di New York proietta questa settimana l’ultimo film di Roberto Minervini
“ What are you gonna do when the world in on fire” ovvero “Che fare quando il mondo è in fiamme”.
Il Film ritorna al Lincoln Center dopo il debutto dello scorso autunno per il New York Film Festival; presente alla Mostra del Cinema di Venezia, ha raccolto riconoscimenti di critica e di pubblico a Londra, a Toronto e in tanti altri festival intorno al mondo.
“Che fare quando il mondo è in fiamme” è un film-documentario che racconta diverse storie parallele sulla vita nel Sud degli stati uniti (Mississippi e Luisiana per intenderci) e in particolare sulle difficoltà economiche e sociali delle popolazioni nere.
L’intento iniziale del regista era di girare un film “sulla tradizione musicale delle black communities e sulla storia orale che tramandano e per questo mi sono spostato a New Orleans e ho iniziato a frequentare il bar di Judy Hill”, racconta Minervini, “ma poi il film è diventato altro”.
“Ho conosciuto i fratelli del film tramite Judy, lo zio viveva sopra al bar.” Le storie del film sono il frutto di relazioni di rispetto e amicizia che Minervini ha stretto a telecamera spenta. “Ho girato più di 150 ore e molte più storie, ma quelle che fanno parte del film sono quelle con le persone con cui ho stretto un rapporto”.

Attraverso un bianco e nero lirico da ‘storia universale’ e dei primi piani che ci immergono nei tessuti dei costumi del Mardi Gras e delle storie, abbiamo modo di capire come vivono due fratelli neri di famiglia modesta, cosa ruota intorno al bar del quartiere che sta per chiudere e chi sono i membri del nuovo partito delle Pantere Nere, diretto da Krystal Muhammad.
Se le scene dei due fratelli Titus e Ronaldo sono malinconiche ma sempre poetiche, la realtà della povertà che scopriamo attraverso Judy che gestisce il bar, è molto più cruda e diretta: la sua vita è stata segnata da abusi, violenze e droga, come moltissime altre persone della sua stessa comunità.
La storia del nuovo partito delle Pantere Nere (New Black Panther Party) è avvincente ed educativa per chi le ineguaglianze non le ha trovate nei libri di storia. I media ‘sbiancano’ tutto, ci dice Krystal, alludendo alla supremazia della ‘narrativa’ dei ‘bianchi’ negli Stati Uniti (e non solo).
La troupe di Minervini è presente durante il primo anniversario della morte di Alton Sterling, il 37enne ucciso a Baton Rouge dalla polizia a luglio del 2016. Il gruppo dei NBPP urla “No justice, no peace” ,“Non c’è pace senza giustizia”. Li seguiamo anche quando vanno per i quartieri a rassicurare la comunità che le “loro indagini” proseguiranno, se la polizia non fa il proprio dovere, loro vi si ‘affiancano’. Vogliono scoprire chi ha imbrattato di insulti razzisti le insegne della scuola elementare, le macchine, le pareti delle case. “Black Power” è mantra che viene ripetuto spesso, come un Alleluja a chiusura di molti interventi eppure: “essere una pantera nera non significa appartenere ad un circolo sociale o ad una religione, è piuttosto un onore”, dicono nel film.
Sembrano più spensierati i fratelli che annoiati vagano per il paese in cerca di giochi di passatempi, ma le scene che li vedono protagonisti hanno significati profondi. Ronaldo, il fratello grande improvvisa dei guantoni intorno alle mani del fratello fatti di stracci e nastro adesivo: gli vuole insegnare a fare la boxe anche se poi gli dice “Nowadays people don’t fight, they shot. Fight is no good unless you have to do it”, “Di questi tempi le persone non fanno a pugni ma si sparano. Picchiarsi non va bene, a meno che tu non debba davvero farlo”.

Tra le forze di questo documentario: sapere che non c’era nessuno script, che niente era stato pianificato ma che una macchina da presa sempre accesa è capace di produrre momenti che trascendono la realtà, in cui ci si dimentica che una troupe è lì a filmare e sembra tutto pianificato, quando invece non lo è. “ Tutto Il mio lavoro si basa su documentazione e osservazione” – Minervini. “Ci sono stati momenti in cui ti hanno chiesto di spegnere la telecamera?” gli chiediamo.
“Si, ci sono stati. Sono spesso i personaggi a dirigere noi, anche io spesso spengo la camera da presa e passo del tempo con loro. Erano le Black Panthers a portarci in giro e quando ci siamo ritrovati con loro a casa della vittima di un linciaggio, ci sono stati dei momenti di forte emozione da parte della famiglia e li’ abbiamo spento le telecamere”.
Ronaldo che pettina il fratello piccolo Titus, loro che giocano insieme in un parco di pneumatici dismessi, o quando si siedono sui binari del treno, potrebbero essere scene del neorealismo italiano, ma sono state girate solo due anni fa. Il bianco e nero è stato scelto dal regista per la necessità di annullare le differenze estetiche tra le diverse storie, per esempio tra i colori scuri delle pantere che vestono solo di nero e le scene dei costumi degli indiani, come lui stesso ci spiega. Il bianco e nero, insieme ai primi piani vicinissimi, elevano i personaggi a ruolo di icona e fanno eco all’iconografia delle immagini per i diritti civili degli anni ‘60. “Il bianco e nero ha una valenza politica, da’ continuità alla lotta per i diritti civile che continua oggi”.
Il Film sarà al Lincoln Center fino al 29 agosto, apre il 23 agosto al Maysles Documentary Film Center di Harlem, il 30 agosto a Chicago (al Facets) e il 6 settembre a Los Angeles (al Laemmle Glendale). Maggiori info qui .