La prima edizione, nel 2017, aveva riunito più di 400mila newyorkesi, di sangue, di adozione o di passaggio, accorsi a protestare contro quello che si preannunciava il Presidente più maschilista e sessista della storia. La seconda, nel 2018, è stata una conferma, a un anno esatto dall’inaugurazione di Donald Trump. La terza Women’s March di New York non è iniziata sotto i migliori auspici, perché capitava in un weekend di esodo per il Martin Luther King’s Day, peraltro con previsioni meteorologiche tutt’altro che rassicuranti. La neve, alla fine, non si è vista: in compenso, nonostante il gelo, sono accorse migliaia di persone, in gran parte donne, armate di cartelloni e tanta voglia di farsi sentire.
Oltre alle tempistiche e alle condizioni climatiche, a pesare sull’esito della marcia c’erano le polemiche che l’hanno preceduta, e che hanno finito per “spezzare” la manifestazione newyorkese in due separate: quella organizzata dalla Women’s March Alliance, il gruppo originario attivo dal 2017 nella Grande Mela, e la propaggine newyorkese, nata nel 2018, dell’iniziativa nazionale di Washington DC, inondata di critiche per posizioni considerate “antisemite”. La controversia è scoppiata quando Tamika Mallory, co-presidentessa della Women’s March nazionale, ha elogiato pubblicamente Louis Farrakhan, leader del movimento “Nation of Islam”, da più parti tacciato di antisemitismo. A nulla sono valsi i tardivi tentativi di rimediare, soprattutto perché Mallory, a conti fatti, non si è dissociata dalle affermazioni di Farrakhan.
Stando alla ricostruzione del New York Times, il gruppo newyorkese della Women’s March nazionale avrebbe provato, a ottobre, a unirsi alla manifestazione della Women’s March Alliance – l’unica ad avere, originariamente, i permessi della polizia –, ma senza successo: secondo la direttrice dell’Alliance Katherine Siemionko, una delle leader del movimento “rivale” avrebbe cercato di “prendere il controllo” dell’intero evento. Il risultato è stato che ne sono andati in scena due, anzi tre: quello principale, della Women’s March Alliance, a Midtown – tra la 72esima e la 44esima strada –, quello della Women’s March “nazionale” a Foley Square, e quello, più modesto, che ha riunito persone con disabilità a Grand Central nel primo pomeriggio, sponsorizzato dal gruppo di attivisti Rise and Resist.
Gli effetti della controversia sono stati chiaramente percepiti dai manifestanti. Secondo Tim, 40enne originario del Queens – tra le mani ben saldo un cartello con su scritto “Shut Him Down” –, quest’anno la marcia era più tranquilla e modesta delle precedenti. “Sarà a causa della divisione”, ha constatato. “Penso sia un vero peccato. In queste occasioni bisognerebbe stare tutti insieme, sotto la stessa bandiera”, ha aggiunto. “Sono qui non solo per supportare le donne, ma anche per protestare contro tutto quello che sta succedendo da quando Donald Trump è Presidente”.
C’è stato anche chi, approfittando del weekend lungo, ha raggiunto New York per partecipare alla seconda marcia al femminile più importante a livello nazionale dopo quella di Washington. “Abbiamo deciso di venire qui da Boston”, ci ha raccontato un gruppo di cinque studentesse del Boston College. Anche nella principale città del Massachusetts, si è tenuta una marcia al femminile, ma, ci hanno confessato le nostre interlocutrici, “volevamo fare le cose in grande”. “Siamo qui per appoggiare la battaglia per i diritti delle donne in questi tempi tanto difficili”, ci ha raccontato una di loro. Della marcia, hanno apprezzato in particolare la trasversalità, “donne, uomini, eterosessuali e omosessuali, transessuali, bianchi, di colore, latini e asiatici: tutti”.
Nonostante l’avvio fosse previsto per le undici, già nell’ora precedente la folla aveva riempito almeno dieci isolati di Central Park West, a partire dall’entrata di 72nd Street. Tantissime donne di tutte le età (e a colpo d’occhio soprattutto bianche), qualche uomo e anche alcuni bambini hanno accompagnato il corteo che ha attraversato Midtown, per confluire a Times Square. Andrea, giovane immigrata di prima generazione dall’America Latina, alla marcia ha portato anche Mone, la sua bambina di 4 anni. “Ho sempre manifestato per le questioni che mi stanno a cuore, e ho partecipato alla campagna di Alexandria Ocasio-Cortez”. A suo avviso, questo “è il momento non solo di protestare, ma anche di agire. Lo abbiamo fatto come volontari nella campagna di Alexandria, perché volevamo far passare il messaggio che essere rappresentati è importante”. E continua: “È ora che le donne smettano di restare in silenzio, e che tutte le ‘minoranze’ si mettano in gioco. Finalmente possiamo far sentire la nostra voce al Congresso”. Quanto a Trump, “spero si proceda con l’impeachment, ma non so se succederà. L’importante è mantenere vivo il dibattito e alta l’attenzione sulle questioni più importanti”.
La varietà dei cartelloni sventolati e degli slogan ripetuti dai manifestanti rifletteva i principali eventi del 2018 di cui le donne americane sono state protagoniste: il primo anniversario di #MeToo, a ottobre; la nomina a giudice della Corte Suprema di Brett Kavanaugh, accusato di aggressione e molestie sessuali ai tempi del liceo e del college da quattro donne, tra le quali la psicologa Christine Blasey Ford; l’exploit al femminile delle elezioni di Midterm, che hanno portato al Congresso un numero senza precedenti di candidate. Proprio tra queste, la ventinovenne Alexandria Ocasio-Cortez, stella nascente della Camera dei Rappresentanti originaria del Bronx, che, presente al rally, nel suo discorso ha invitato le donne a “far tremare il tavolo”. “L’anno scorso abbiamo portato il potere alle urne, e quest’anno dobbiamo assicurarci di tradurre questo potere in politica”, ha affermato. “Questo è l’inizio della nostra advocacy. Perché abbiamo appena conquistato la Camera, e ora mostreremo che cosa saremo capaci di realizzare d’ora in poi”.
.@AOC lays down the true meaning of justice #WomensWaveNYC ???✊? pic.twitter.com/E0P5pj0Uis
— Women’s March NYC (@WomensMarchNYC) January 19, 2019
I toni dei manifestanti, combattivi ma sempre pacifici, si sono infiammati soprattutto al passaggio davanti alla Trump Tower (“Shame!”) e alla sede di Fox News (“Fake!”), l’emittente più vicina al Presidente.
Tra i momenti più particolari, poco prima della fine del tragitto, l’attore e regista Bryan Cranston si è affacciato alla finestra del teatro Belasco, l’ha scavalcata e, camminando sul cornicione, ha espresso a gesti il suo supporto alle partecipanti. A Times Square, poi, la marcia si è conclusa con una esibizione di percussioni del gruppo Fogo Azul, al termine della quale la folla ha cominciato a disperdersi.
Davanti al movimento (anzi, ai movimenti), si prospettano dunque dodici mesi cruciali: il 2020, con le presidenziali, sarà infatti l’anno della resa dei conti. I primi segnali, per le donne, sono incoraggianti: perché, con la discesa in campo (esplorativa) di Elizabeth Warren e di Kirsten Gillibrand (e in attesa dell’annuncio di altre due “papabili” concorrenti, la senatrice californiana Kamala Harris e quella del Minnesota Amy Klobuchar), queste primarie si preannunciano già le più popolate di quote rosa della storia. Resta da vedere se le iniziative dal basso si mostreranno all’altezza della sfida. E se riusciranno a unirsi, oltre le polemiche, tenendo gli occhi fissi sull’obiettivo.