Quest’anno è cominciato così, con un senso di nostalgia, ma anche con il piacere di una scoperta. Quella scoperta che diventa sempre più importante, quella consapevolezza che è anche il mio tesoro: ho scoperto di avere una passione. È un’emozione costante, che cresce ma che non mi esaspera. Il piacere di te, New York, che al di là di essere città, rappresenti la voglia di vivere e anche di soffrire. Alla fine, cos’è la vita se non c’è il piacere dell’attesa e del progetto? Se desiderare è la più banale delle forze, desiderare è anche la forza più potente. È quella che si accompagna a quell’altra ambizione: quella di rimanere liberi dalle cose della vita che ti arrivano come imposizione. Il lavoro che ti reprime, gli altri che non ti interessano ma che devi sopportare, le lamentele di chi ti vomita addosso frustrazioni che si potrebbero evitare, e tutto il resto.
Poi penso: tutti i newyorkesi che si sentono infelici – e sono tanti! – sono infelici in un modo universale, un modo umano.
Ecco il consiglio che do a me stessa e che do alle persone che amo o a quelle che, semplicemente, stimo o mi attraggono per la loro simpatia: fregarsene. Stare lontani, almeno emotivamente, dagli impegni che non migliorano la propria vita, dalle mete fasulle, da quei weekend in compagnia a cui bisogna sottostare perché altrimenti si rischia di rimanere soli. Soli. E allora? Cosa importa se si rimane un po’ soli? Non è forse un lusso sognare da soli? Avere il tempo di desiderare? E anche leggere, camminare, vedere un cane buffo con le zampe storte…
Dunque, città del mio cuore. Tu sei sempre più simbolo per me, il marchio della libertà perché sono stata io a marchiarti così. Sei il luogo in cui gli altri sanno sorriderti ma anche sputarti addosso la stanchezza della loro attesa. Attesa di una promozione, o attesa su una banchina. Per esempio alla fermata della subway: quei treni lenti e a volte inesistenti del Bronx o di una certa Brooklyn. Certo, non sei perfetta.
Hanno ragione, probabilmente, quelli che dicono: New York è un paradiso solamente per chi non ci vive. Bene. Allora, capisco sempre di più. Bisogna trovarsi un luogo ideale e lasciarlo così, dentro quello stato di idealità. Idealità, leggerezza e sano menefreghismo. Perché, insisto, è il desiderio, la tensione verso quello che non hai ma che vorresti avere, a donarti l’amore verso la vita.
La passeggiata tra le vie del mio luogo ideale mi libera dalle incombenze di tutti i giorni. Poi, lo so, una volta trovato questo luogo, devo saperlo gestire in autonomia, con le mie braccia e con le mie gambe. Dev’essere così perché, altrimenti, saranno sempre gli altri a dirmi cosa è giusto e cosa non è giusto fare.
Ecco, adesso a casa mia, agisco in questo modo: mi prendo un luogo, mi riprendo New York.
Un luogo da amare e un luogo per guadagnare terreno, tra me e me.
Così, è cominciato il nuovo anno.