Cammino tra le tue vie nell’East Village e vedo una maga. Poi ne vedo un’altra che attende l’avventore, forse colui che chiede una qualche forma di giustizia dopo aver subito un torto, o magari colui che aspetta un impiego. Di certo qualcuno è in attesa di un amore.
Chi mi incontra per la prima volta, mi chiede il segno zodiacale. Leone, rispondo, e poi va tutto bene. “Ah! Ecco perché mi piace parlare con te” mi sento dire a quel punto. Succede ad Harlem mentre aspetto che inizi il concerto al Paris Blues: qui Sam, nel suo cappello di sempre, accoglie i clienti da decenni. Lui che partendo dal profondo sud ha voluto creare il suo micro-macro mondo musicale.
Sei sempre il simbolo di quella libertà che cerco fuori e dentro di me: finalmente mi sono resa conto di aver vissuto per troppo tempo sotto l’egida delle convenzioni…
C’è sempre una forma di magia che ruota attorno a te, New York, e che ti rende leggera nonostante la tua robustezza e la tua enormità. Sei una mappa infinita, fatta di quartieri dentro i quartieri. Penso alla tua downtown più profonda, quella di Tenement and Orchard street, quella che ti rappresentava prima come la città che accoglieva i migranti, e che oggi è movida, bar, piccoli atelier e gallerie d’arte per artisti più o meno famosi o facoltosi.
Penso a tutti quegli italiani, italiani che hanno anche il mio cognome, Colosi, giunti nel tuo Lower east side dopo l’arrivo a Ellis Island. E ancora a tutti quei cinesi che da queste parti hanno creato la China Town più affascinante e rumorosa del mondo fuori dalla Cina.
Sono proprio le salse cinesi che mi ritrovo sempre tra i vari assaggi, tra i tanti piatti del mondo. Mi verrebbe da dire che le salse asiatiche, a partire dalla soia, mettano assieme tutti i sapori. Salse cinesi che uniscono varie pietanze che giungono da qui e da lì: Caraibi, Libano, Senegal… Forse solo la cucina italiana riesce a evitare la contaminazione di quelle gelatine dolci e piccanti che il potere cinese impone al cibo americano!
Il cibo. Lo si consuma dappertutto. Sulle tue panchine, tra i vagoni dei tuoi treni. Qualche volta sul divano, ma è quasi sempre un cibo liberato, ingurgitato con il piacere di poterlo avere in ogni momento della giornata.
In uno dei tuoi boardwalk, a Brooklyn, ho visto un pescatore e, un’altra volta, ne visto un altro con la canna da pesca in mano in metropolitana. Quella volta lì, ero sorpresa, sorpresa di vedere un pescatore dentro uno dei tuoi treni. Eppure sei una città piena d’acqua, sei un luogo d’oceano, tu sei cemento e mare e, sta a noi la scelta. Godere del cemento o godere della tua grande fonte acquosa.
La tua acqua è potabile, scopro, e il tuo sistema idrico è superfunzionante. Sei modernissima, lo so, ma poi, camminando, scopro che hai ancora le botteghe con i distributori di palline di plastica, quelle che contengono una sorpresa. Le desideravo tanto da bambina quando le vedevo nella bottega in cui mi portava mio nonno. Si inseriva il soldino nel buco del grande contenitore, si girava una manopola e usciva la pallina. Tu, New York, vivi giorno e notte, cresci ogni secondo, ma ti prendi anche il lusso, anzi la libertà, di fermare il tempo in un’immagine.
Tu sei i tuoi abitanti. Un ragazzo con un pitone attorno al braccio, un amatore di piccioni, lavoratori stakanovisti che corrono sempre, e nullafacenti che ciondolano nei parchi ad ascoltare musica e ballare sculettando senza pudore. Poi c’è il musicista in erba che, timidamente, osserva e ascolta una band che ha cominciato a suonare da un bel po’. Il musicista in erba aspetta la clemenza del musicista abile. Aspetta un gesto, una chiamata. Aspetta di poter suonare in pubblico, di esibirsi. Adesso lui si è unito a quella band e suona il suo sax con gli occhi chiusi e la bocca felice.