Il primo Oscar dell’era Trump, il primo Oscar con un alto numero di candidati afroamericani (anche in risposta alla vergognosa mancanza dell’edizione precedente) e anche il primo Oscar che sbaglia ad annunciare il film vincitore.
La cerimonia di consegna degli Oscar 2017 si è tenuta all’insegna della politica, sia per certe scelte dell’Academy sia per l’aberrante situazione determinata dalla chiusura dei confini americani ai cittadini di 7 paesi (oggi 6) che ha portato, tra le altre cose, a negare l’ingresso negli Stati Uniti al siriano Khaled Khateeb, direttore della fotografia di White Helmets, vincitore dell’Oscar come miglior cortometraggio documentario, e all’assenza del grande regista iraniano Asghar Farhadi, già premio Oscar e vincitore quest’anno per il miglior film straniero con il suo Forushande (Il cliente).
Quella del 2017 è stata un’edizione politica anche per gli speech dei premiati e per le manifestazioni organizzate a Hollywood nei giorni precedenti. Un’edizione in questo senso che ne ricorda un’altra: quella del 1968, rinviata dopo l’uccisione di Martin Luther King.
Quando gli Oscar andavano a New York
Sono passati esattamente novant’anni dalla nascita dell’International Academy of Motion Picture Arts and Sciences, voluta nel 1927 dal capo della MGM Louis B. Mayer insieme a un gruppetto di rappresentanti dei diversi reparti creativi dell’industria cinematografica di allora. Ma se oggi come allora Academy e Oscar sono sinonimo di Hollywood, non è sempre stato così. Dal 1953, anno della prima diretta televisiva della cerimonia di premiazione, al 1957, la notte degli Oscar era divisa tra Los Angeles e New York. A New York era l’NBC International Theatre a ospitare premiazione, star, pubblico e stampa e proprio qui, nel 1953, ad attendere il fatidico “and the Oscar goes to…” c’era la newyorchese Shirley Booth che vinse come miglior attrice protagonista in Come Back, Little Sheba (Torna, piccola Sheba) mentre l’anno successivo, sempre a New York, Audrey Hepburn vinse con Roman Holiday (Vacanze Romane) e nel 1955, nello stesso teatro fu Eva Marie Saint a ritirare la statuetta come miglior attrice non protagonista per la sua interpretazione, accanto a Marlon Brando, in On the Waterfront (Fronte del porto), newyorchesissimo film sui lavoratori e gli affari mafiosi del porto di New York girato in realtà a Hoboken, New Jersey.
Quando New York vinse la statuetta
Ma la New York da Oscar non finisce qui; molti sono infatti i grandi film ambientati a New York che nella lunga storia dell’Academy hanno vinto l’oscar, senza contare il primissimo film newyorchese ad ottenere la nomination come miglior film in quella che è stata la prima edizione dell’Oscar nel 1929: The Crowd (La folla) di King Vidor. Film che accanto all’impronta tutta europea di un realismo ruvido e disperato presenta il sogno americano del successo che si infrange contro la realtà spietata della vita e della metropoli New York, dove il protagonista è arrivato da ragazzo convinto di poter diventare un uomo importante, per poi rendersi amaramente conto che è uno come tanti: un uomo qualunque tra la folla. The Crowd è una della rappresentazioni più lucide di New York nella storia del cinema americano, lo straordinario racconto della quotidianità dell’uomo comune nella grande città. La regia magistrale di Vidor, tra l’insolita mescolanza di stili e innovativi movimenti di macchina, gli valse la nomination come miglior regista di un film drammatico.
Una città protagonista
Da questo momento in poi, New York è stata spesso protagonista dei film vincitori dell’Oscar, dalla messa in scena di Broadway nel primo film musicale premiato nel 1930, The Broadway Melody (La canzone di Broadway), fino a Birdman, miglior film nel 2015, ancora sul mondo teatrale newyorchese, sublime racconto della realtà e dei sogni di un attore. In mezzo, molti altri titoli in cui a volte New York è un semplice pretesto, altre volte invece rappresenta l’essenza stessa del film, un elemento narrativo e stilistico unico e imprescindibile, riflette un modo di pensare e di fare cinema.
E’ questo il caso di numerosi film che non solo hanno ottenuto il maggior riconoscimento dell’Academy ma sono tra i capolavori del cinema americano: dopo il già citato On the Waterfront (Fronte del porto) di Elia Kazan (Oscar nel 1955) è stata la volta di Marty (Marty, vita di un timido) di Delbert Mann (1956), un malinconico ritratto di un macellaio italoamericano del Bronx che sembra destinato a una vita di solitudine; The Apartment (L’appartamento) di Billy Wilder (1961), in cui Jack Lemmon è un borghese piccolo piccolo che fa i conti con il potere aziendale e le tante ombre del boom metropolitano; West Side Story di Jerome Robbins e Robert Wise (1962), scontro da gang con annessa tragica storia d’amore in musical nelle strade di quello che ora l’elegante Upper West Side; Midnight Cowboy (Un uomo da marciapiede) di John Schlesinger (1970), spietato ritratto della metropoli in cui i sogni si infrangono senza possibilità di lieto fine; The Godfather I e II (Il padrino I e II) di Francis Ford Coppola, miglior film rispettivamente nel 1973 e nel 1975, racconto assoluto e definitivo della mafia italoamericana di New York pur essendo stato girato solo in piccola parte in città; Annie Hall (Io e Annie) di Woody Allen (1978), quintessenza della New York intellettuale che consacra Allen ad autore newyorchese per eccellenza; Kramer vs. Kramer (Kramer contro Kramer) di Robert Benton (1980), doloroso racconto della dissoluzione della coppia, in cui New York si vede e si respira in ogni inquadratura.
Una città da schermo
Non è un caso che gli anni in cui questi film sono stati girati e premiati sono anche gli anni in cui il cinema – quello d’autore in particolare, e negli anni Settanta quello del New American Cinema – si allontana da Hollywood per andare a raccontare i luoghi e la gente reale, e dalla fine degli anni Cinquanta alla fine degli anni Settanta, non c’era posto più vero di New York. La New York del boom, dei criminali, della polizia corrotta, dei teatri e dei bordelli di Times Square, dei diner di quartiere, degli appartamenti affacciati su Central Park, delle gang, della solitudine di chi arriva dalle piccole città e dalle grandi pianure americane, una città spietata e meravigliosa in cui milioni di vite si svolgono ogni giorno sugli schermi di tutto il mondo, guardate con compassione, rabbia, invidia o disgusto, ma tutte autentiche, tutte più vere del vero com’era la New York vista al cinema. E che il cinema ha, in quegli anni, riconosciuto e premiato.