La Sicilia è, per dirla con uno dei suoi figli maggiori, “una, nessuna e centomila”. Per questo ci si chiede che idea di questo angolo di mondo possano avere coloro i quali ne conoscono soltanto le zone costiere, quelle maggiormente pubblicizzate dagli operatori turistici, considerate forse le più attraenti. Tuttavia, quest’idea rispecchia una realtà dimezzata, come di corpo mutilato di una sua parte importante, essenziale sia dal punto di vista estetico che della sostanza. E questo perché la Sicilia, pur essendo circondata dal mare –anzi, proprio per questo – ha carattere terragno, dovuto, esso, non soltanto alla vocazione contadina, ma al fatto che l’insularità ne ha segnato il destino, la storia. L’insularità, la centralità geografica che ne hanno fatto una sorta di boccone prelibato nel bel mezzo di un mare affollato di marinai intraprendenti e affamati.
Se il massimo piacere del viaggiare si raggiunge quando allo spostamento nello spazio si unisce lo spostamento nel tempo, visto che in Sicilia il retroscena storico è profondissimo, e la varietà del paesaggio supplisce alla relativa ristrettezza spaziale, si potrebbe facilmente sostenere che quello in Sicilia è il viaggio perfetto. Del resto, dove si trova tanta bellezza e varietà di paesaggio con una concentrazione così strabiliante di opere d’arte e di testimonianze storiche? Superficie e profondità, entrambe istoriate come in pochi altri angoli del pianeta è avvenuto: ecco il segreto di questa regione. Ecco perché in epoche diverse i viaggiatori più colti l’hanno definita un “continente”.
Penso a Goethe e alla sua lungimirante definizione della Sicilia: “chiave” per comprendere l’Italia. Per quel crogiolo naturale della storia, quel suo subire e accogliere civiltà di ogni dove, quel suo vivere e sopravvivere sospesa tra l’accettazione passiva degli eventi e il rifiuto eroico, capace di deviare il corso delle vicende umane. Un destino che nel bene e nel male, scrive Sciascia, ne ha fatto “metafora del mondo”.
Ogni volta che qualcuno mi dice “vado” o “vorrei andare in Sicilia”, mi viene da chiedere: quale? Quella più nordica che mediterranea delle Madonie? Quella solare e abbagliata di mare delle coste o quella arida, polverosa e spolpata? Quella araba d’Occidente o quella greca d’Oriente? La Sicilia spagnola o quella classica che gli inquieti viaggiatori del XVIII e XIX secolo covavano nel cuore già prima di intraprendere il viaggio? Quella romanica o quella barocca? E ancora: la Sicilia immobile, l’isola che ammantata di nero trascorre i suoi giorni in attesa della festa che le è più congeniale, la Settimana Santa? Oppure quella odierna e in movimento, la Sicilia che sembra avere così fretta di vivere la sua modernità da stravolgere i suoi connotati e perdere per strada, con immemore leggerezza, ogni suo carattere assieme a brandelli di tradizione?
Nessuno si è mai illuso di conoscere veramente a fondo questa terra e i tanti libri che scrittori di ogni epoca e di ogni latitudine le hanno dedicato, sono lì a dimostrarlo. Per questo, credo, quest’isola conserva un immutato fascino. In Sicilia si cercano residui di mistero, scampoli di miti. Qui si viene per inoltrarsi in uno spazio sospeso tra realtà e sogno. Terra di idilli e di dissidi, la Sicilia lusinga e respinge. Era l’ “hic sunt leones” delle antiche mappe, spazio ideale per i superstiti devoti dell’avventura non pianificata nei particolari.
Basti quest’esempio: nel rievocare il suo primo incontro con Virginia, Leonard Woolf, in una sua nota tira in ballo la Sicilia; e uso l’espressione “tirare in ballo” per rendere l’idea di una forzatura, di qualcosa di snobisticamente artificioso cui l’intellettuale inglese volle ricorrere per colorare quell’evento. Virginia era in compagnia della sorella Vanessa – riferisce Leonard Woolf – ed entrambe avevano «vestiti bianchi e larghi cappelli» di modo che fu – spiega Woolf – «come trovarsi davanti a un capolavoro, come accade in Sicilia, dove, dopo una curva nella strada, attraverso i campi s’intravede il bel tempio di Segesta…». Ecco: la Sicilia come luogo delle apparizioni improbabili, dunque magiche. La Sicilia come mitico luogo dove l’immaginario europeo colloca i suoi confini razionali e cognitivi.
Agli aspetti da incubo propri della sua natura, in quest’angolo di mondo fanno da contrappunto inaspettate visioni d’incanto; quelle visioni che ad Edmondo De Amicis, in visita ai paesi etnei, suggeriscono un’efficace definizione della zona vulcanica che bene si adatta all’intera isola: «un paradiso terrestre interrotto qua e là da zone d’inferno». È tutta fatta così, la Sicilia: una serie infinita di contrasti, un continuo alternarsi delle due facce più appariscenti, quella della morte e quella della vita.
Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo usa toni sconvolgenti, arrivando ad applicare il concetto di irredimibilità al paesaggio: «…riappare l’aspetto della vera Sicilia, quello nei cui riguardi città barocche e aranceti non sono che fronzoli trascurabili: l’aspetto di una aridità ondulante all’infinito, in groppe sopra groppe sconfortate e irrazionali, delle quali la mente non poteva afferrare le linee principali, concepite in un momento delirante della creazione: un mare che si fosse ad un tratto pietrificato nell’attimo in cui un cambiamento di vento avesse reso dementi le onde…».
Eppure, un verso di Salvatore Quasimodo canta: «La mia terra è sui fiumi stretta al mare» e sembra voler spazzare via quel senso di arsura, di follia pietrificata suggerite dall’aristocratico scrittore palermitano. Chi ha ragione? Entrambi, vista l’ambiguità di questa regione. E saggiamente lo spiega Gesualdo Bufalino: «Un paesaggio di vigore e dolcezza, come la natura l’ha partorito e l’arte l’ha fatto e disfatto. Secondo la vicenda di gesti creativi o micidiali donde s’è composto nel tempo il sembiante della terra che ci innamora: ingenuo e vissuto, barbarico e colto, via via che all’opera delle stagioni si veniva sovrapponendo la malizia attiva dell’homo faber e la sua manesca, curiosa ingegnosità di colono…».
Per i viaggiatori che avranno fatto incetta delle conclamate bellezze archeologiche, artistiche e naturali della Sicilia, può essere interessante cogliere le differenze tra la parte orientale dell’isola e quella occidentale. Infatti, lasciandosi alle spalle l’Etna, a mano a mano che ci si avvicina a Trapani, si assiste ad una lenta ma evidente mutazione della luce e dunque della campagna, degli umori della terra, degli uomini stessi. Da una Sicilia dalla luminosità addirittura eccessiva, da una terra allegra e bonaria ci si inoltra in un mondo cupo, silenzioso, malinconico, amaro. Nella prima metà dell’Ottocento ne ebbe intuizione Tocqueville, il quale nel descrivere la rigogliosità delle coltivazioni nella Piana di Catania (le sterminate piantagioni di agrumi chiamate giardini), ne sottolineò la sostanziale differenza con il desolato estendersi dei latifondi del centro dell’isola.
La verità è che tra la Piana di Catania e la provincia di Palermo si estendono gli aridi altipiani delle zolfare, un’intricata labirintica gruviera nelle cui viscere per un paio di secoli si è consumata una tragedia di sfruttamento umano, violenza e illusioni miseramente bruciate. Nel 1834 la Sicilia annoverava 196 miniere di zolfo; oggi restano ammassi di pietrisco, ferraglie arrugginite, rotaie divelte. E quanto dolore, quanta sofferenza raccontano ruggine e polvere. Malpagati, costretti a grattare la dura pietra in asfissianti cunicoli, deformati nel fisico dagli enormi pesi, gli operai delle zolfare restano l’esempio più triste del penoso sfruttamento umano. Figura della zolfara diventata leggendaria è quella del picconiere, al quale erano legati i destini dei lavoratori bambini chiamati “carusi”.
Nella celebre novella Ciàula scopre la luna, con toccante pietà ne ha scritto Pirandello: «Curvo, quasi toccando con la fronte lo scalino che gli stava sopra, e su la cui lubricità la lumierina vacillante rifletteva appena un fioco lume sanguigno, egli veniva su, su, su, dal ventre della montagna, senza piacere, anzi pauroso della prossima liberazione. E non vedeva ancora la buca che lassù si apriva come un occhio chiaro, d’una deliziosa chiarità d’argento…E Ciàula si mise a piangere, senza saperlo, senza volerlo, dal gran conforto, dalla grande dolcezza che sentiva nell’averla scoperta, là, mentr’ella saliva nel cielo, la luna…».
Anche questo può essere turismo, e se si vuole sapere di più di questa Sicilia su cui è calato il silenzio, si vada a visitare qualche miniera abbandonata che nel Nisseno, nell’Ennese e nell’Agrigentino non si tarderà a trovare. Si vada a Montedoro, a Sommatino, ad Assoro; o a Grotte, a Comitini, a Favara: ovunque, in questi paesi si troveranno vecchi disposti a rievocare un’epopea dolorosa ma che seppe essere anche esaltante.
In quest’isola c’è uno spirito primordiale e il senso delle cose ultime. Attraverso di esse ci si inoltra sulla strada del remoto e dell’intramontabile, nel sentiero del nostro destino di esseri mortali sulla terra, che altro conforto non possono avere che in se stessi: nel loro essere costruttori di case, giardini, templi. Ma la natura non può mai essere dominata e i nostri padri greci lo sapevano. Essa è sempre un incanto e una coralità sacra, una bellezza che può talvolta arrivare ad essere terribile, ma che nella sua globalità resta comunque meravigliosa.
Fu solo col declino del mondo pagano greco-romano e con l’affermazione del cristianesimo che si diffuse una visione della natura del tutto diversa. A partire da alcuni versetti del Pentateuco – «E Dio disse: Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza, e domini sui pesci del mare e sugli uccelli del cielo, sul bestiame, su tutte le bestie selvatiche e su tutti i rettili che strisciano sulla terra» – si fece strada l’idea che l’uomo dovesse signoreggiare sulla natura. Da qui è discesa la recente paura che egli possa distruggerla. Ma la natura con le sue immense incontrollabili forze accoglie i segni dell’uomo, ma non teme alcuna follia. L’unica via per l’uomo è quella di assecondarla, coltivandone la bellezza, che sparsa ovunque nel mondo, agli occhi di chi sa vederla, può risultare la cosa che più abbonda. Ma, inutile dirlo, in Sicilia come altrove, la bellezza ha le sue minacce e queste vengono sempre dall’ingorda ignoranza.
È impossibile pensare il passato e il presente della Sicilia separati dai paesaggi dell’isola o questi ultimi distaccati dagli accadimenti umani. La geografia è inevitabilmente storia. Non si può, ad esempio, capire la fortuna storica della Sicilia se non si ha la consapevolezza che quest’isola è stata per lungo tempo una terra di molte acque. Quasi tutti i fiumi che ora sono solo dei rigagnoli erano infatti navigabili. Molti ruscelli attraversavano boschi che non ci sono più. Solo a partire da questo dato si può capire la poesia del siracusano Teocrito, dal quale discende il mito dell’Arcadia virgiliana. La vera Arcadia era in realtà un luogo montuoso, con altopiani calcarei interrotti da voragini, mentre i prati fioriti, i boschetti ombrosi, le valli fertili e le fresche sorgenti che l’immaginazione di Virgilio vi trasferisce venivano dalla bellezza che Teocrito aveva conosciuto in Sicilia, a Cos e nelle isole vicine. Guardando i paesaggi cinquecenteschi di Guercino o Poussin, che all’Arcadia virgiliana si ispiravano, si trova un po’ della Sicilia antica e niente della regione greca che di quel mito porta il nome.
Non è possibile capire tutte le storie e le leggende che girano intorno all’Etna se non si parte dal fatto che i Greci erano – sebbene non come i Fenici – dei grandi naviganti. Il mito dell’Etna sorge infatti dal mare, così come ricorda il grande critico d’arte Bernard Berenson, che, trovandosi nel 1953 a Taormina, scrisse nel suo diario: «Stamane mi sono levato alle 4.45 e mi sono messo al balcone della mia stanza per vedere l’alba sull’Etna. Il suo colore era argento e viola sopra un delicato rossore, che sembrava venirgli di dentro. La grande altezza della montagna non appariva tale per via dei suoi morbidi e lunghi fianchi. Il mare era uno specchio che rifletteva i colori del cielo, via via pervaso di rosso per il sorgere dal basso del sole, sempre più presente, sebbene non fosse ancora scoperto al mio occhio. Una calma senza suoni, eccetto quello vasto e subito spento della grande distesa del mare rompentesi al suo toccare la riva. […] Ho appena detto che i morbidi pendii dell’Etna c’impediscono di avvertire bene quanto la montagna sia alta. Ma io, in particolari circostanze, ebbi modo di averne presentimento. Nei primi giorni di dicembre, nel 1888, venivo dal Pireo sopra un piccolo piroscafo mercantile, che doveva lasciarmi a Messina. Il mare ci castigò con una delle sue più matte burrasche, calmandosi poi, mentre ci avvicinavamo alla Sicilia. Salito sul ponte, guardai al firmamento cristallino e vidi una bianca curva seguirlo fino a un punto che mi sembrò lo zenit. Allora chiesi che fosse mai quello che gli occhi scoprivano. Mi fu risposto. “E’ l’elevazione dell’Etna che s’inarca per adattarsi alla curva del cielo”. Illusione? Realtà? Posso solo dire che non ho mai dimenticato quella straordinaria visione».
Si pensi a cosa poteva essere per gli uomini di duemila e cinquecento anni fa vedere di notte l’Etna da una nave, durante un’eruzione. Quale senso di meraviglia, di mistero e insieme di terrore si poteva provare! La fiamma è anima del mondo, origine dello sviluppo umano, madre della metallurgia e della ceramica, genitrice di tutto il cammino tecnologico. Senza di essa saremmo non molto diversi da altri animali: non avremmo costruito templi e teatri di pietra, palazzi, giardini, non saremmo stati agricoltori e naviganti.
Senza il fuoco, la Sicilia – come il resto del mondo – sarebbe vuota della creatività dell’uomo e la stessa bellezza della natura risulterebbe incomprensibile; non saremmo in grado di capire che la bellezza delle cose viene anche dal centro infuocato della Terra, dal fondo del mare e dalla vastità delle galassie. Senza il fuoco non saremmo giunti alla scienza e all’amore dei luoghi: non saremmo siciliani, inglesi o cinesi, ma semplici animali che vagano senza arte e con nessun altro pensiero che sopravvivere.