In Sicilia ci sono ancora luoghi che mantengono il ricordo delle passate civiltà e Mozia ne è una testimonianza eloquente e ancora viva. È un’isoletta, tanto bella quanto piccola, del Mediterraneo, di questo bacino senza maree, senza scogli nascosti e infide correnti che, come dice Joseph Conrad nel suo libro Lo specchio del mare, ha portato l’uomo «verso il proprio destino, di capo in capo, di baia in baia, d’isola in isola, fino al possesso degli oceani del mondo». Solo il Mediterraneo con Mozia soddisfa allo stesso tempo corpo e spirito; nessun’altra realtà di ieri e di oggi è al contempo umana e sacra, celebre e familiare.
Lo sferzare delle brezze che accarezzano Mozia, le sue fosforescenze notturne, il bruciore del sale, i piccoli marosi arricciati dall’improvviso ritorno dei venti costieri, i bianchi prati sottomarini, gli Dei che non hanno ancora abbandonato l’isola…Ecco il Mediterraneo con Mozia; ecco questa piscina probatica insieme all’isolotto, che rinnova sempre i suoi miracoli di cultura e di bellezza e testimonia gli infiniti passaggi nel mare colore del vino. Mediterraneo così dolce da vedere, così amaro da assaporare, Mediterraneo fenicio che sembra nascondere nei suoi abissi il mistero delle proprie origini e, alla superficie di essi, quello meno lontano, della nostra civiltà classica.
Una volta – ben prima del Rinascimento – il Mediterraneo era l’orizzonte del mondo e oggi ci commuove con le sue rughe piene di cultura e di saggezza. La sua superficie però non ha dimenticato le tracce dei primi vascelli senza timone, delle zattere di papiro, delle navi dell’Iliade, delle barche dei Fenici, di quegli ebrei del mare, cariche di resina baltica o di stagno della Cornovaglia, delle triremi, delle galere, dei brigantini. Il Mediterraneo è stato il maggiore luogo di scambi del vecchio mondo e le sponde di Mozia hanno assistito ai crocevia essenziali della storia e i suoi empori hanno venduto vino siciliano-fenicio ai passanti diretti in Sardegna, Iberia e ben oltre, verso Tiro e Alessandria.
I Fenici occuparono Mozia – isola di appena 45 ettari, conosciuta oggi col nome di San Pantaleo, stretta tra la costa siciliana a nord di Marsala e l’Isola Longa – tra il IX e il IV secolo a.C. e la trasformarono in una base commerciale di grande rilevanza. La ricerca archeologica ha permesso di studiare l’evoluzione dell’isola fino al dominio di Cartagine e fino alla sua drammatica distruzione, avvenuta nel 396 a.C. ad opera del tiranno di Siracusa, Dionigi. Non restano grandi tracce di epoca romana e su Mozia scese un oblio destinato a durare secoli, interrotto solo dal risveglio dell’interesse archeologico nel XIX secolo, quando perfino Heinrich Schliemann, lo scopritore di Troia, nell’ottobre del 1875, condusse ricerche senza però grande successo.
Ma è all’inizio del Novecento che l’archeologo inglese Joseph Whitaker, erede di una famiglia che si era trasferita in Sicilia facendo fortuna con la produzione del vino marsala, diede il via agli scavi sistematici, che andarono avanti dal 1906 al 1929. Le ricerche ripresero poi nel 1964 grazie a Sabatino Moscati, condotte fino al 1993 da Antonia Ciasca e dirette dal 2002 ad oggi da Lorenzo Nigro con un’equipe di giovani ricercatori dell’Università La Sapienza di Roma.
Sono state fatte straordinarie scoperte che, dal Tempio del Kothon collegato a un ampio temenos circolare di 118 m di diametro, al Tofet, alle mura, al Sacello di Astarte, alla casa del sacello domestico, hanno arricchito le conoscenze sul Mediterraneo antico, mettendo in risalto la fitta rete di relazioni, scambi, prestiti, diversità e contaminazioni tra le culture fiorite in epoca protostorica. Una delle ultime scoperte è l’aver individuato in quelle che si ritenevano tracce dell’antica darsena fenicia, una “piscina sacra” con una sorgente di acqua dolce.
Si tratta di ritrovamenti straordinari, che consentono di ridisegnare la presenza fenicia e anche il carattere di tutta l’area sacra, con il tempio all’interno di un recinto a forma circolare e la presenza di mandibole umane che fa pensare a sacrifici estremi. Recente è anche la scoperta di un nuovo edificio di culto associato ad un’area proto-industriale a ovest del tempio del Kothon, anch’esso caratterizzato dalla presenza delle acque e con numerose offerte, in particolare resti di animali sacrificati. Forma, natura e vocazione del tempio del Kothon rappresentano quindi un esempio che non ha eguali nel Mediterraneo e se le precedenti interpretazioni archeologiche vedevano le zone del tempio come un porto, le ultime ricerche hanno permesso di reinterpretare l’area come un cerchio sacro che racchiudeva una piscina rituale, una vasca sacra dedicata alle abluzioni, inserita in un cerchio e costruita per osservare le stelle grazie all’effetto specchio dell’acqua.
Un’altra recente scoperta è una stele, un cippo di calcarenite del 550 a.C. in perfetto stato di conservazione, con un’iscrizione a chiare lettere fenicie dipinte di rosso che recita “tomba del figlio di Melqart figlio di…” particolarmente importante perché rivela il nome del re di Mozia, in quanto si denominavano figli del dio i primi sacerdoti, ovvero i regnanti; è stata ritrovata non lontano dal tempio del Cappiddazzu, il tempio dinastico dedicato al dio Melqart – Eracle per i Greci e adorato come il protettore della dinastia regnante – la stessa area nella quale fu recuperata, nel 1979 dall’archeologo Gioacchino Falsone, anche la statua mutila del giovane di Mozia la cui scoperta sembrava avesse arricchito la Sicilia di un enigma.
Nel magnifico marmo, custodito presso il Museo Whitaker, a fatica si è riconosciuto lo stile iniziale dell’età classica, il periodo severo che trova a Selinunte le più alte manifestazioni. La difficoltà di intendere il soggetto ha prodotto diverse interpretazioni: i sostenitori del soggetto siceliota ipotizzarono che fosse un auriga vincitore con benda o corona sul capo e la palma nella mano destra, eventualmente il Nicomaco che avrebbe condotto al premio i cavalli di Senocrate, fratello di Terone di Agrigento, a Istmia nel 477 a.C. e alle Panatenee; un guerriero addobbato per la danza pirrica; un attore; un personaggio politico, il “Gelone disarmato” della tradizione storica; infine, un protagonista del mito, Dedalo alato come simbolo della grecità di Sicilia, e pertanto ambito dagli ostili predatori. Gli assertori della committenza punica, invece, proposero di identificare nell’opera un nobile cittadino di Mozia che avrebbe partecipato vittoriosamente alla corsa dei carri in gare panelleniche o locali, ovvero un condottiero cartaginese munito di elmo e con lancia nella destra, forse Amilcare; un sacerdote o fedele in abito rituale o mistico travestimento. Dello scopritore della statua è l’idea che si tratti di una divinità, un Baal quale auriga celeste, o meglio Melqart, per via della fascia pettorale ricorrente nel costume dei sacerdoti del dio a Cadice, secondo l’accenno che ne ha lasciato Silio Italico nelle Puniche.
La statua fu probabilmente abbattuta dai Siracusani durante il saccheggio del 397 a.C. L’anno successivo, al ritorno degli abitanti superstiti con Imilcone, venne deposta, come è stata ritrovata, entro una cinta di pietre, nel battuto di macerie che segna la breve ripresa di vita nella città: la “colmata siracusana” che ha salvato una testimonianza artistica non meno prestigiosa dei marmi arcaici violati dal nemico e interrati sull’Acropoli di Atene dopo l’invasione di Serse (“colmata persiana” nella definizione convenzionale) e come quelli in grado di aprire una pagina nuova nell’archeologia del Mediterraneo.
La massiccia corporatura del personaggio incarnerebbe quindi la perentoria prestanza di Eracle, che si fonde a Melqart nel culto e nell’iconografia. Tale identificazione sembrerebbe emergere dalla ricostruzione grafica delle parti mancanti, dei fori e delle altre impronte della copertura bronzea (la pelle leonina, la leontea, la cui protome avrebbe coperto la calotta cranica, mentre la criniera circondava la nuca e le zampe anteriori erano annodate sul petto) rimaste sul marmo, persino dalle anomalie compositive, proporzionali e prospettiche della figura. Il braccio destro era sollevato a impugnare la clava – realizzata come la leontea in lamina di bronzo e ancorata dietro la testa con i due perni in parte conservati – nella suggestione egizia del “dio che abbatte”.
Mozia è, senza alcun dubbio, un sito archeologico dal valore inestimabile, uno scrigno ancora ricco di tesori da riportare alla luce e raggiungerla significa immergersi silenziosamente in un tempo che non esiste più ma che ancora ci parla, in un luogo dove si respira e si tocca la storia della Sicilia. Questo angolo di mondo è immerso in uno scenario naturale senza eguali, uno spazio in cui si è circondati dalla bellezza della natura e dalla solennità delle testimonianze di vite passate, uno spiraglio di mistica delicatezza che assume i colori variopinti delle albe e dei tramonti, degli scenografici mulini. Mozia è l’immagine stessa di un paradiso terrestre, una perla del Mediterraneo in cui si avverte il forte senso di centralità del mondo antico.