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May 31, 2016
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Quando Riina non riuscì a far fuori “u Commissario”

Il mio collega Rino Germanà, che a Mazara del Vallo fece il suo dovere di poliziotto e riuscì a non morire

Pippo GiordanobyPippo Giordano
mancino germana

L'allora ministro degli Interni Nicola Mancino con il commissario Rino Germanà la sera dopo l'agguato mafioso

Time: 3 mins read

In occasione del 24esimo anniversario della strage di Capaci, io e Rino Germanà, già questore della Polizia di Stato, siamo stati ospitati dall’emittente televisiva Teleromagna per parlare di mafia. Perché due poliziotti siciliani con un passato di lotta alla mafia, non più in servizio, si mettono in gioco parlando del loro vissuto, della propria esperienza investigativa? Si potrebbe, parimenti, fare un’altra domanda: perché il più alto tributo di sangue nel condurre la lotta a Cosa nostra è stato versato dai figli della Sicilia?

Le risposte stanno nel DNA dei Siciliani. Popolo abituato a soffrire, un Popolo svegliatosi dal letargo dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio. E quando analizzi la vicenda di Rino Germanà, ti rendi conto che il male può essere sconfitto. Conoscendolo e frequentandolo capisci quanto amore traspare per la sua Terra, la Sicilia. In una terra come quella di Mazara del Vallo, non era facile fare “u Commissario” di Polizia e non era facile farlo conservando l’integrità morale e senso del dovere. Anche un altro giovanissimo commissario fu allontanato da Trapani perché aveva osato toccare i “pezzi da novanta”. Quel giovane, il 6 agosto del 1985, fu ucciso a Palermo. Si chiamava Ninni Cassarà ed era il mio dirigente.

Quindi, per aver innescato le ire di Totò Riina, significava, che Rino Germanà non era in vendita né disposto a tradire lo Stato. La lealtà, così come l’onestà, non l’acquisti al supermercato, ma esse sono il paradigma dell’essere poliziotto in generale, ma in particolare  in terra di mafia. Guai a non capire l’esigenza d’essere onesti, altrimenti c’è il baratro. Gli ideali di giustizia sono l’architrave dell’essere uomo e poliziotto. E tutto questo ha dato fastidio, tanto fastidio a Totò Riina, che “u Commissario” ficcasse il naso su Cosa Nostra trapanese. Germanà, aveva “arruspigghiato” (svegliato) un territorio mafioso lasciato da tanto  tempo al controllo dei boss. In sostanza, aveva rotto non solo gli equilibri, ma anche quei meccanismi che regolavano e assicuravano la pace sul territorio con beneplacito della massoneria. Del resto Mazara del Vallo rientrava a pieno titolo nell’influenza egemonica di Totò Riina. Quest’ultimo, risentito dal comportamento di Germanà, che non perdeva occasione per riaffermare la supremazia dello Stato sul territorio, ne decise la morte. E non diede l’incarico a un killer qualsiasi, ma affidò la spedizione di morte alla crema di Cosa Nostra, ovvero suo cognato Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano.

Rino Germanà, come racconta egli stesso, pur attinto da colpi di arma da fuoco, ingaggiò un conflitto a fuoco, salvandosi. La vicenda drammatica di Rino Germanà, conclusasi felicemente anche se rimasto ferito, fa parte di un copione di violenza, che la Terra siciliana ha dovuto subire per tanti anni. Quanti uomini, magistrati, poliziotti e carabinieri ammazzati da Cosa nostra. Troppi! E ogni qualvolta che uno di “Noi” veniva ucciso, eravamo li pronti a riprendere l’impari lotta. Sovente la morte si è aggirata in lungo e largo tra le nostre piccole stanze della Mobile palermitana e solo quando vedevi il corpo di un collega  trafitto dai proiettili, realizzavi di essere stato lasciato solo dallo Stato.

Dieci morti ammazzati, solo nella Squadra mobile di Palermo. La solitudine prendeva il sopravvento ed ognuno di noi, nel proprio intimo portava i segni drammatici per aver perso un amico, un collega. Tuttavia, tutti e dico tutti, eravamo consapevoli di essere nel mirino dei mafiosi. Eravamo diversamente folli di giustizia, di verità e che nemmeno la paura riuscì a scalfire le nostre corazze. Eravamo un avamposto di pochi uomini, e ciononostante riuscimmo a sbeffeggiare un esercito di 5000/6000 mafiosi. La sproporzione era abissale. Poi, ti rincuora e ti rende felice l’apprendere, che il 14 settembre 1992 uno di “Noi” , Rino Germanà è rimasto vivo.

Lo stesso Totò Riina, intercettato dalla DIA il 16 novembre 2014, mentre parla con un altro mafioso nel carcere di Opera a Milano, cita appunto l’attentato di Rino Germanà: evidentemente ancora oggi nutre rancore e astio verso Germanà, ma noi, io e Germanà, continueremo a combattere la mafia, senza pistole: solo con la parola.

Intervista a Rino Germanà e Pippo Giordano – 23 maggio 2016 from 19luglio1992 on Vimeo.

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Pippo Giordano

Pippo Giordano

La legalità è il mio chiodo fisso perché fin da piccolo ho respirato la mafia e la sua brutalità. Sono stato ispettore della DIA e ho lavorato nella Squadra Mobile di Palermo di Ninni Cassarà. Ho diretto la Sezione antiterrorismo della Digos di una città del Nord. Ho collaborato con i giudici Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. Oggi, da pensionato, racconto agli studenti degli uomini che hanno scritto col sangue la lotta alla mafia. Con Andrea Cottone ho scritto un libro, Il sopravvissuto, l'unico superstite di una stagione di sangue, che parla delle ombre in quella zona di contatto fra mafia e pezzi di Stato.

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