Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo un estratto dal capitolo iniziale del libro di Giacomo Di Girolamo, Contro l’antimafia (Il Saggiatore, 2016)
Io sono nato una seconda volta, e tanti con me. Era il 1992. Un sabato pomeriggio: quattordici anni e i compiti fatti in fretta, perché alle sei dovevo andare a giocare a pallone con gli amici. Avevo un paio di scarpe nuove ai piedi, gialle e nere, sembravano due calabroni. Mi riempivano d’orgoglio. E pensavo alla partita, all’invidia degli amici. Sarebbe durata pochi minuti, quella fierezza, ma me li sarei goduti tutti. Poi la concitazione della sfida, e la terra rossa del campo, avrebbero nascosto la novità. Sarebbe rimasta solo la sofferenza, ai piedi, costretti in quella miscela di plastica, gomma e finta pelle ancora rigida, ma non mi sarei lamentato. No, non mi sarei lamentato.
Stavo per montare in bicicletta e andare al campetto, quando dalla radio della cucina – sempre accesa, in casa mia – giunse, come un’eco lontana, la notizia che qualcosa era successo vicino a Palermo. Un incidente, no, un’esplosione, no: qualcosa di ancora più grave, che interrompeva la «normale programmazione», la musica, le rubriche del fine settimana. Un attentato. Dio, che bel pomeriggio che era. Che aria dolce. Eppure, a un certo punto, bloccato sulla bicicletta, un piede sul pedale, l’altro ancora in terra, sentii come il fragore di un temporale che si avvicinava, con quello spostamento d’aria che si avverte prima di ricevere una timpulata, uno schiaffone. Vidi il grembiule di mia madre avanzare verso di me. È meglio che non esci.
Sul grembiule aveva una macchia di salsa a forma di triangolo. Sembrava la Sicilia, sembrava sangue. Fissavo quella macchia, mi massaggiavo la guancia. Sceso dalla bicicletta, mi sentivo goffo e sgraziato. I piedi mi facevano male.
Restai in casa a seguire, alla radio, alla televisione, le notizie sull’attentato al giudice Giovanni Falcone, alla moglie, alla scorta, con i miei che si sfogavano in un pianto silenzioso, composto e amaro. A quattordici anni scoprii cos’era la mafia in un’edizione straordinaria del Tg1. «Il terriccio che ostruisce quella che era l’autostrada vicino Palermo»; «Le lamiere contorte… probabilmente è la Croma blindata del giudice Giovanni Falcone»; «Ci sono anche due feriti austriaci che erano qui in Sicilia per una vacanza»… «Qualcosa come mille chili di tritolo.»
In studio la conduttrice chiuse il collegamento con l’inviato: «Il tempo stringe, abbiamo interrotto la trasmissione…».
Quel sabato sera finì così, tra le telefonate con parenti e amici, per chiedersi: hai saputo?, con la speranza irragionevole e umana che qualcuno dicesse: guarda che non è successo niente, sono appena arrivato da Palermo, è tutto a posto, si sono sbagliati. Non è la Sicilia, è la Palestina, l’Irlanda del Nord, Beirut, il pianeta Krypton. E invece tutti sapevamo: hai visto, hanno scoppiato il giudice Falcone. E l’uno voleva sapere se l’altro stava bene, e mia madre diceva: no, Giacomo non c’è andato al calcetto. E ancora: com’è possibile, com’è possibile, ma che cos’è, cos’è?
Già, che cos’era? L’interruzione della mia infanzia, il tempo che stringeva. Lo capii il lunedì successivo, in un’assemblea straordinaria degli studenti della mia scuola. Un’aula magna piena di ragazzini, per la prima volta tutti in silenzio, come in attesa. Solo che nessuno apriva bocca, nessuno aveva il coraggio o la voglia di prendere il microfono e parlare. Avevamo bisogno di darci la mano, noi ragazzi.
Il rappresentante degli studenti, per spezzare la tensione, cominciò a leggere gli articoli di giornale sulla strage di Capaci. Per la prima volta la sua pronuncia ai limiti della dislessia, gli strafalcioni, le erre trascinate non ci facevano ridere. Ricordo ancora la vignetta di Forattini, sulla Repubblica, che non si poteva leggere ad alta voce – come fai a spiegare un disegno? –, ma conteneva già il senso di tutto: la Sicilia come un coccodrillo, con le fauci appena chiuse su un falco. Qualcuno vuole intervenire?, chiese il rappresentante degli studenti. Nessuno. Qualcuno vuole intervenire?, ripeté. Alzai timidamente la mano. Volevo dire qualcosa. Per la prima volta, volevo dire qualcosa in pubblico. E ciò che dissi fu: dobbiamo fare qualcosa. Non fu un grande intervento, perché dissi solo questo, e poi non riuscii ad aggiungere altro. Dobbiamo fare qualcosa. Questo qualcosa ce l’avevo dentro, ce l’avevamo dentro; non riuscivamo a tirarlo fuori.
Il qualcosa venne dopo, da sé. Cominciarono a entrare in classe i giornali, li leggevamo avidi. Studiavamo ciò che avevamo accanto: le famiglie mafiose, i mandamenti, la guerra di mafia, i Corleonesi, la droga, gli appalti truccati e le estorsioni. Cominciammo a interessarci anche dei mafiosi della porta accanto, e a fare, timidamente, qualche nome. E ai nomi associavamo volti. Ci attardavamo nelle biblioteche per scoprire, con meraviglia, che molto era già stato scritto; e dove eravamo, ci chiedevamo, dov’erano coloro che avrebbero dovuto spiegarci e raccontarci tutto questo, invece del mito della terra bellissima ma che non dà lavoro, del ciuri ciuri e delle gite alla Valle dei Templi?
C’era una nube rossa di sangue che avvolgeva la Sicilia. Ci faceva girare la testa.
Se Capaci fu una specie di visione, nel luglio successivo la strage di via D’Amelio rappresentò una vera e propria chiamata alle armi. Per lo Stato, che infatti avrebbe mandato l’esercito in Sicilia, ma anche per molti di noi, che alla lotta alla mafia decisero di dedicare la loro vita.
Quel giorno di luglio era domenica, e noi eravamo al mare. Le radio cominciarono a dire: un botto a Palermo. Come, un botto
a Palermo? Che orrore.
(…)
Nascono comitati e reti civiche, le iniziative più disparate.
Lotta alla mafia, lotta alla mafia, lotta alla mafia. E dopo?
Tante fiaccolate.
Tanti cortei.
Tanti lenzuoli.
Tante primavere.
Tante manifestazioni.
Tante petizioni.
Tante elezioni.
Tanti libri.
Tanti film.
Tante vittime.
Tante tessere di Libera.
Tanti pellegrinaggi.
Tanti latitanti arrestati.
Tanti processi.
Tanti slogan.
Tanto scrivere.
Un presidente della Sicilia incarcerato per mafia.
Il suo successore, finito a processo per mafia.
Il successore del successore, malato di antimafia.
Un’autentica frenesia d’appartenenza.
E dopo tanto tempo, a un certo punto, ti accorgi che qualcosa è cambiato.
Da Palermo a Milano, da Roma a Bologna, stendevamo lenzuoli bianchi ai balconi, per esprimere un dolore e un’indignazione che ci avvolgevano come un sudario. Parlavamo con fierezza di «primavera», volevamo riscattare il martirio di quei magistrati, dimostrare a Giovanni Falcone che quel breve momento di euforia in cui aveva detto «la gente fa il tifo per noi» non era stato una parentesi fugace in una lotta impari, ma davvero noi, la gente, c’eravamo.
Le donne digiunavano, in tutta Italia venivano raccolte firme per dare al paese la più innovativa legge sulla confisca dei beni ai mafiosi.
In questi trent’anni, li abbiamo fatti scendere idealmente dai balconi, i nostri lenzuoli; li abbiamo usati come mantelli, noi eroi dell’antimafia quotidiana.
Solo che, col tempo, i lenzuoli sono diventati bandiere.
E le bandiere sono diventate stracci.
E la primavera è diventata inverno.
Ieri dicevi antimafia e pensavi: riscatto, orgoglio, proposte, denuncia.
Oggi dici antimafia e pensi: vuota ritualità, protagonismo, sensazionalismo, corsa ai finanziamenti, bugie.
Quando è successo?
Io non lo so, non lo ricordo proprio. Mi chiedo: quando? E provo a darmi una risposta.
Quando le assemblee scolastiche per parlare di mafia sono diventate una buona scusa per non fare lezione.
Quando le scuole hanno cominciato a ricevere soldi a palate per progetti sulla legalità a scatola chiusa.
Quando sono cominciate a spuntare decine di finte associazioni antiracket.
Quando abbiamo iniziato a scoprire le finte vittime.
Quando è saltato fuori l’«avvocato delle mie parti civili», lo specialista dei processi di mafia, che nulla sa di diritto ma incassa cospicue parcelle per far scena muta in rappresentanza di fantomatiche associazioni antimafia.
Quando abbiamo scoperto che il sindaco che la mattina faceva appelli antimafia la sera faceva affari con la cosca locale.
Quando le proposte di legge contro la corruzione si sono impantanate in Parlamento.
Quando l’azienda sequestrata al boss, che dava lavoro a decine di persone, ha chiuso. Quando abbiamo scoperto che l’unico che si è arricchito, in quella come in altre vicende di mala gestione dei beni confiscati, è stato l’amministratore giudiziario.
Quando l’imprenditore che ha lanciato la «svolta della legalità» nell’associazione degli industriali è finito indagato per mafia.
Quando i parenti delle vittime hanno cominciato a candidarsi alle elezioni. E quando, perdendole, hanno dato la colpa alla mafia.
Quando ho avvertito come un pensiero unico dell’antimafia, una cosa che ti schiaccia, e che ti impone di non sollevare mai dubbi sull’operato dei giudici, sulla bontà delle confische, sulla santità delle vittime, sull’attendibilità del resoconto di certi giornalisti. Un solo pensiero, un solo colore, un solo suono, un solo battito.
Quando ho iniziato a conoscere scrittori, politici, persino artisti che appongono alla loro qualifica la parola «antimafia».
Quando quelli intorno a me dicevano: l’importante è non vedere, noi siamo quelli per bene che lottano per il fine supremo, la liberazione dell’Italia dalle mafie giustifica tutto. Non ti impressiona il colpo d’occhio del nostro esercito allineato, il fascino della sua divisa, la coreografica esteticità delle sue mosse? Vedi come respira, come un solo uomo, come un solo corpo, una sola invincibile armata?
Quando ho cominciato ad ammettere che non capivo, che tutto mi sembrava complesso, oscuro, come fosse un’altra lingua.
Quando abbiamo cominciato a dimenticare la sostanza delle cose e ci siamo appiattiti sull’esteriorità dei riti.
Quando ho pensato che avessimo ottenuto tutto, tutto.
Ma era soltanto una parodia di quello che avevamo sognato.