Negli ultimi mesi si è sentito molto parlare, da destra come da sinistra, da parte di cristiani e di laici, di “valori europei”. Sono stati evocati con forza e usati come argomento sia da chi parla con terrore di “invasione” dei migranti in Europa, sia da chi al contrario invoca quei valori per esortare all’accoglienza. Pur adoperando la stessa espressione, si tratta di concetti profondamente diversi, che però nessuno si prende la briga di definire quando li richiama.
Il nome di Europa ci riporta alla storia di un incontro, di una fusione tra Occidente e Oriente. È il mito del ratto d’Europa, figlia del re dei Fenici, portata in groppa da Zeus, che aveva assunto sembianze di toro, attraverso il mare dall’attuale Libano a Creta. Un rapimento amoroso consenziente, più che un sequestro. La fanciulla viene portata dall’Africa al continente che prenderà il suo nome, per fondare una stirpe.
Oggi però sembra essere diventato difficile provare a pensare in termini di incontro-confronto, anziché di contrapposizione culturale, tra Oriente e Occidente, tra Nord e Sud. Con il nazismo e l’Olocausto, si era creduto di aver toccato il fondo, una sorta di punto del male assoluto: e si era arrivati perfino a parlare di fine della Storia. Naturalmente, la Storia non è finita e purtroppo neppure gli orrori che l’uomo è in grado di perpetrare. Il superamento del bipolarismo mondiale della Guerra fredda ha paradossalmente dissolto la chiarezza di una situazione sclerotizzata, che si credeva destinata a durare molto a lungo, consegnandoci scenari internazionali incerti e di difficile decifrazione, in cui hanno un peso enorme attori come Daesh, che non sono nazioni né stati, ma che agiscono trasversalmente e sono potenzialmente presenti ovunque con la minaccia terroristica.
Per l’Europa in questo momento il rapporto con l’Islam è uno dei temi decisivi. Le identità di popoli, nazioni e gruppi sociali sono identità storiche, storicamente formatesi: per uscire da forzature ideologiche appare importante individuare quali sono i passaggi storici che hanno definito e formato l’Europa contemporanea. Siamo in un’Europa che innalza muri (il caso del Brennero) e recinti di filo spinato, in cui c’è una forte riviviscenza di nazionalismi e particolarismi, che non riesce a essere unita nell’affrontare una crisi umanitaria epocale e lascia sole Italia e Grecia. Un’Europa forse forte con i deboli e debole con i forti, un’Unione Europea in preda a forze centrifughe di disgregazione, crisi d’identità, amnesie storiche. Un’Europa che deve riuscire a trovare le risorse culturali per affrontare un momento storico che appare chiaramente critico.
Abbiamo chiesto di aiutarci ad approfondire questi temi a Donald Sassoon, storico di fama mondiale, professore emerito di storia europea comparata alla Queen Mary University of London, allievo di Eric Hobsbawm, autore del monumentale The Culture of the Europeans (La cultura degli Europei, Rizzoli, 2008), esperto di storia del socialismo, studioso del fascismo, attualmente impegnato in una ricerca sul capitalismo globale tra Ottocento e Novecento.
Quali sono i “valori europei”, che definiscono l’identità europea oggi?
“I valori europei in realtà non li voglio definire perché è impossibile. Basta scegliere i valori che si vogliono, fare una lista e dichiarare che questi sono i valori europei. Il gioco dura da secoli, dall’Illuminismo: gli illuministi con valori europei in realtà intendevano valori dell’Europa occidentale e ancora oggi è così. Parlare di valori è sempre stato un modo di attribuirsi dei meriti. E allora si parla di American values, British values, valeurs republicains in chiave positiva: sempre da parte di nazioni che hanno avuto una certa boria in politica estera negli ultimi secoli, ovvero queste tre nazioni sostanzialmente, USA, Gran Bretagna, Francia. Non si è mai sentito parlare di valori bulgari, o turchi – che eventualmente farebbero venire in mente contenuti reazionari”
O anche di valori italiani…
“Esatto. Valori romani, o italiani, farebbe storicamente pensare, ancora, a valori militaristi e poi fascisti. Parlerei piuttosto di valori umani, di diritti universali”.
Che hanno comunque una precisa genesi storica.
“Sì, i francesi li rivendicherebbero, dicendo di essere stati i primi a parlarne, con la Dichiarazione del 1789 (appena inizia la Rivoluzione, in agosto in effetti già si parla di diritti universali). È molto difficile scampare da una qualche forma di imperialismo culturale. D’altra parte non possiamo non adoperare parole difficili da definire, altrimenti staremmo tutti zitti e parleremmo soltanto di algebra. È sempre molto complesso attribuire dei contenuti. E comunque le definizioni non sono sufficienti. Per esempio il diritto universalmente riconosciuto dei profughi di guerra – persone che fuggono per mettere in salvo la propria vita – ad essere aiutati viene poi seriamente messo in discussione sul piano dei fatti dalla vastità del fenomeno. In teoria è riconosciuto a tutti, di fatto poi bisogna avere risorse e mezzi per intervenire”.
Quindi allo stesso modo è impossibile parlare di “identità europea”? Insisto su valori e identità, perché di questi concetti si sta facendo un uso larghissimo e forse un abuso, nel dibattito politico e sui mass media.
“Come storico devo dire che questa non è una novità. Nell’Ottocento le grandi battaglie politiche erano sulla definizione della nazionalità. Ogni dichiarazione di identità va contestualizzata dal punto di vista politico e storico. Ad esempio, per un milanese nel 1848 definirsi italiano significava cosa molto diversa da oggi, quando è un’ovvietà: allora era una posizione precisa, una scelta di campo, un’identità prevalente su quella regionale. Significava essere un patriota, un nazionalista, forse un mazziniano… Prima dell’Ottocento l’identità era definita dall’appartenenza religiosa: l’identità è sempre stata molto importante e molto forte. Quello che c’è forse di nuovo oggi è l’importanza politica della moltiplicazione di identità, cioè ce ne sono altre che contano: essere donna, essere gay, essere di destra o di sinistra, essere filoeuropeisti eccetera, oltre alle identità nazionali e religiose… Mass media e social network ci costringono a spiegare continuamente chi siamo. Io personalmente sono nato in Egitto, di nazionalità britannica, ho vissuto in Francia e in Italia, sono ebreo ma non filoisraeliano: tutto questo complica le cose, perché la gente mi chiede spesso: ‘tu cosa sei veramente?’. Io ritengo più interessante essere definito da quello che dico, che non da quello che sono, dalle circostanze che non ho scelto io. Sulla nascita non abbiamo ovviamente alcuna possibilità di scelta. Si sente dire ‘sono orgoglioso, fiero’ di essere di una certa nazionalità o, viceversa, ‘purtroppo mi è toccato di nascere’ qui o là, ma bisognerebbe invece sottolineare la differenza tra l’identità che abbiamo ricevuto e quella che abbiamo scelto. Gestire e ridefinire continuamente l’identità che si è scelta è faticoso, e tuttavia è un lusso per chi vive nei paesi ‘ricchi’. E comunque, ripeto, tutto va contestualizzato storicamente. Nel mio caso, il cosmopolitismo poliglotta oggi è generalmente considerato positivo, addirittura un aspetto invidiabile, ma nel 1939 in quanto ebreo cosmopolita sarei stato ucciso. Dunque, per la stessa identità, ucciso nel 1939 e invidiato nel 2016. Peraltro c’è una forte dialettica tra l’identità che si riceve e l’identità che si sceglie: l’identità è definita anche dalle aspettative degli altri (genitori, amici, società…). Le lotte per i cambiamenti sociali hanno a che fare con la non accettazione delle identità ‘date’ e lo scarto generazionale nelle società moderne, negli ultimi due secoli è diventato molto più profondo”.
Per Benedetto Croce la storia dell’Europa è la storia della sua libertà, che ricostruisce nella Storia d’Europa nel Diciannovesimo secolo pubblicata nel 1932, alla vigilia dell’ascesa di Hitler al potere. Ritiene condivisibile la posizione di Croce?
“Croce è un’ossessione tipicamente italiana, ma all’estero non è così letto (tranne che dagli specialisti, ovviamente). Quello che Croce fa con ‘libertà’ nella sua storia d’Europa si potrebbe fare anche con democrazia, capitalismo, tecnologia, imperialismo, nazionalismo…: fenomeni che in Europa si sono manifestati prima o in modo più pronunciato che altrove. Di fatto l’Europa è un continente in cui ci si è scannati per parecchi secoli, che è diviso in modo assolutamente straordinario e continua a dividersi, al contrario dell’America latina, l’America del Nord o perfino l’Africa (i cui confini sono molto più stabili). L’Europa conta ormai oltre quaranta stati, forse destinati a crescere, se le regioni separatiste (Catalogna, Scozia, Paesi Baschi) ce la faranno, se il Belgio dovesse dividersi. In Europa in realtà ci sono state le guerre peggiori degli ultimi secoli: le due guerre mondiali nel Novecento, e l’Olocausto, che non è il primo genocidio della storia però è il primo genocidio totalmente moderno, non un massacro “popolare” [di un popolo contro un altro, nda] generato da odi etnici che covavano da secoli, ma statale. L’eliminazione di sei milioni di persone progettata e organizzata da uno stato moderno, in un paese di grandissima cultura, il paese di Goethe e Beethoven. Direi che l’interpretazione di Croce non è storia, è religione”.
Qual è attualmente lo stato di salute dell’Unione Europea?
“È innegabile che l’UE stia male. Se vogliamo salvare il paziente, bisogna curarlo, ma come? Il 23 giugno qui in Gran Bretagna si vota il cosiddetto Brexit, il referendum per decidere se la Gran Bretagna resta nell’Unione europea o esce, il cui esito è assolutamente incerto. Gli scenari delineati dai due diversi schieramenti in caso di vittoria degli avversari sono catastrofici, il dibattito è surreale, è molto difficile immaginare cosa succederebbe se la Gran Bretagna uscisse davvero. Non si può che aspettare. È un dato di fatto però, che, per il resto, finora l’Unione europea è un club che ha tanti problemi, ma in cui in tanti vogliono entrare e non viceversa (Serbia, Bosnia, Ucraina…)”.
Ci deve quindi essere qualcosa di buono in questo club. Che cosa?
“Ognuno vede nell’UE delle cose diverse. Quando ci fu la fine delle dittature in Spagna, Grecia, Portogallo negli anni Settanta, l’ingresso nell’Unione europea non era un fatto puramente economico, ma la conferma della democraticità di questi stati e del fatto che non avevano alcuna intenzione di tornare indietro. Anche la Turchia, sperando di entrare, ha indetto elezioni democratiche e ha abolito la pena di morte, poi però non è stata fatta entrare e c’è stata un deriva autoritaria da parte di chi è stato eletto legittimamente. In ogni caso vanno rispettate le forze politiche elette democraticamente. Lo dico anche in vista delle elezioni americane, in cui è possibile che venga scelto Trump”.
Restiamo per un momento sulle elezioni presidenziali in USA e l’ascesa di Trump.
“Beh, io sarei stato molto più spaventato se fosse stato nominato Ted Cruz, che è un fanatico religioso, a cui magari poteva venire in mente di scatenare una guerra mondiale perché gliel’ha detto Gesù… Speriamo comunque di poter continuare con questa “deriva normale”, speriamo che Trump non vinca”.
Deriva normale: un bellissimo ossimoro…
“Grandezza e decadenza sono un genere letterario molto popolare: se c’è grandezza, deve esserci decadenza prima o poi, e viceversa. Ma credo che per l’Occidente gestire la propria decadenza sia un obiettivo importante. Certo nessun candidato chiederebbe di essere votato per questo: offrirsi di gestire una serena decadenza (un po’ come la vecchiaia) non funzionerebbe come slogan elettorale, in cui c’è bisogno di trionfalismo – ma io personalmente lo voterei”.
Il nuovo sindaco di Londra, eletto a larga maggioranza (56,8%), il laburista Sadiq Khan, è un self made man di origine pachistana, un avvocato di 45 anni, musulmano, europeista. La sua vicenda umana, professionale e politica è una bellissima storia di “integrazione democratica”, per così dire. Ritiene che in questo momento storico, in Europa, questo sia un segnale incoraggiante contro la retorica della paura? E semmai anche un esempio per i nuovi immigrati?
“Sadiq Khan, figlio di immigrati pachistani, è però nato a Londra, al contrario della maggioranza dei londinesi: una metropoli in cui il 40% dei residenti non sono nati neppure nel Regno Unito, come me. Quindi Khan è più londinese del londinese medio. Di famiglia modesta (il padre era conducente di autobus), si laurea in legge e si specializza in diritti umani, pur essendo in una città ricchissima, forse il più grande centro d’affari al mondo. È musulmano, ma un po’ sui generis, laico, favorevole ai matrimoni gay, cosicché gli Imam più conservatori hanno preferito votare per il candidato ebreo conservatore piuttosto che per un musulmano laico. Questa è Londra, con la sua complessità. Da deputato Khan ha sostenuto una campagna locale per tenere aperto un pub storico a Londra, che sarebbe come immaginare un ebreo che lotta per tenere aperta una salumeria. Questo Sindaco può essere un potente strumento di de-radicalizzazione dei giovani musulmani che si sentono discriminati, soffrono di islamofobia, magari sono tentati di ascoltare i predicatori fondamentalisti. A Londra i musulmani sono l’11%, ma Khan al primo turno, su 15 candidati, ha avuto circa il 43% dei voti: non è stato votato solo dalla comunità musulmana”.
Per chiudere la nostra conversazione, uno sguardo al futuro. L’Unione europea ce la farà?
“Chi risponde a una domanda di questo tipo in realtà dà un segnale sulle proprie speranze. Non lo so naturalmente, non lo sa nessuno. Io direi di sì”.