A sentire quello che racconta Carmelo D’Amico, ex killer delle cosche mafiose messinesi – per la precisione di Barcellona Pozzo di Gotto – il pubblico ministero Nino Di Matteo sarebbe un sopravvissuto. Un sopravvissuto che mafia e ‘pezzi’ dello Stato italiano non sarebbero ancora riusciti a fare saltare in aria come hanno fatto con Rocco Chinnici, con Giovanni Falcone e con Paolo Borsellino. Nino Di Matteo è il magistrato che, insieme con i suoi colleghi Roberto Tartaglia, Vittorio Teresi e Francesco Del Bene, regge l’accusa al processo sulla trattativa tra Stato e mafia che si celebra a Palermo. Mentre Carmelo D’Amico è un collaboratore di Giustizia che i pubblici ministeri considerano “altamente credibile”. E’ credibile perché le sue dichiarazioni presentano riscontri piuttosto precisi con quelle di altri mafiosi pentiti. E anche perché ha trascorso due anni in carcere con Nino Rotolo, boss del quartiere palermitano di Pagliarelli, considerato vicino all’allora capo di Cosa nostra siciliana, Bernardo Provenzano.
Il tema è sempre il solito: si deve credere alle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia? Debbono essere loro a ricostruire la storia a tinte fosche del Belpaese? E il fatto che altri mafiosi pentiti dicano le stesse cose basta a trasformare gli indizi in prove? Può sembrare una strada con il solito dilemma: credere o non credere? Però, in questo caso, non è così. Lette con gli occhi di un cronista di giudiziaria, i dubbi circa l’attendibilità dei collaboratori di giustizia ci stanno tutti. Lette, invece, con gli occhi di chi segue le cronache politiche della Sicilia da oltre trent’anni cambia tutto, perché la mafia ‘filtrata’ dalla politica è del tutto diversa.
Che significa ‘filtrare’ la mafia dalla politica? Significa, in primo luogo, inserire i personaggi politici coinvolti nelle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia nelle reali posizioni che occupano nel nostro Paese e, soprattutto, in Sicilia. Nel potere che hanno esercitato. Nel come, quando e dove hanno esercitato questo potere.
Chi scrive si sta limitando a leggere in chiave ‘politica’ un articolo pubblicato in questi giorni da Il fatto quotidiano. Cominciamo dal presente. Con un esempio: gli immigrati e gli affari che girano intorno a questo mondo. Va da sé che i barconi che trasportano migranti in Italia sono gestiti dalla criminalità organizzata. E non è difficile stabilire un nesso tra i migranti che arrivano e quelli che vengono ospitati nei centri di accoglienza. Anche perché i centri di accoglienza sono un grande business (soprattutto i centri che ospitano i minori non accompagnati). E i centri stanno nel territorio. E il territorio, soprattutto in Sicilia (ma ormai non solo in Sicilia), non sfugge al controllo della mafia. Il principio è sempre lo stesso: tu conti di fare un sacco di soldi quando la pubblica amministrazione italiana di pagherà (i Comuni, la Regione, lo Stato: fai tu)? Bene, ricordati che ci siamo anche noi. Non pensare di spendere, sì e no, 10-15 euro al giorno per ogni migrante accolto, incassarne da 45 a 75, sempre al giorno, e lasciare noi a bocca asciutta. Perché questo non esiste.
Insomma, se i collaboratori di giustizia tirano in ballo politici che hanno avuto a che fare – e che hanno a che fare – con il grande affare dei migranti, ebbene, questo impone una riflessione in più. Perché è molto difficile che la mafia non abbia 'naschiato' l'affare migranti. Anche perché non bisogna dimenticare che la mafia, oggi, è ben inserita nella 'solidarietà' e nelle associazioni antiracket, e non mancano indagini giudiziarie dalle quali viene fuori che personaggi che apparivano in prima fila nella lotta al racket e alla mafia erano, in realtà, dei mafiosi, spesso infiltrati dagli stessi boss. I mafiosi, da questo punto di vista, sono proteiformi. Capeggiano o comunque provano a infiltrarsi nelle associazioni antiracket e, anche se ancora questo non è venuto fuori, non ci sarà da stupirsi se, tra qualche anno, si scoprirà se questo o quel mafioso era in prima fila tra quelli che si battevano per accogliere ad ogni costo i migranti. Questo, ovviamente, non significa che tutti quelli che si battono per accogliere i migranti sono mafiosi. Significa che la mafia, per fare business, è pronta a strumentalizzare anche i filantropi dell’accoglienza.
Ovviamente, quello dei migranti oggi è un affare importante. Ma non è il solo. E’ importante anche il passato dei personaggi politici tirati in ballo dai collaboratori di giustizia. Se sono politici chiamati in causa per la prima volta, che magari non hanno rivestito incarichi importanti, non resta che approfondire. Per verificare che cosa ci può essere di vero. In Sicilia, per i cronisti politici, c’era un metodo molto semplice per accertare, anche se approssimativamente, l’eventuale ‘associazione’ di un politico a certi ambienti: la provenienza dei voti. Oggi questo non è più possibile per i parlamentari nazionali, perché il Porcellum non consente di rintracciare in modo preciso la provenienza dei voti. Con il Porcellum (la legge elettorale di Camera e Senato) non c’è più la possibilità di stabilire il nesso tra i voti di certe ‘aree’ della Sicilia con uno o più candidati eletti.
Contrariamente a quello che si pensa, il Porcellum non ha sfavorito la mafia, ma l’ha favorita. Perché ha spersonalizzato il consenso aiutando i politici vicini ai boss, che sono ormai, sotto il profilo elettorale, ‘irrintracciabili’. Cosa, questa, che non deve essere sfuggita ai chi ha provato a ‘cassare’ il Porcellum. Questo spiega perché oggi i boss tifano per l’Italicum: perché, come il Porcellum, è una legge elettorale confezionata su misura per le loro esigenze nel Sud Italia (e ormai non soltanto nel Sud Italia, se è vero che mafia e ‘ndrangheta ormai sono presenti anche nel Centro Nord Italia).
Fatta questa premessa, il processo sulla trattativa tra Stato e mafia e i collaboratori di giustizia che si susseguono in questo processo acquistano un’altra luce. E’ il caso di D’Amico, che ha detto di aver maturato il proprio ‘pentimento’ dopo aver ascoltato, il 21 giugno dello scorso anno, le parole di Papa Francesco che, al pari di Papa Giovanni Paolo II, ha scomunicato i mafiosi. Ai magistrati di Messina e poi a quelli di Palermo ha detto di aver commesso una trentina di omicidi, soprattutto tra Catania e dintorni. Il racconto di D’Amico presenta rivelazioni inedite. Tra i personaggi tirati in ballo davanti alla Corte d’Assise di Palermo c’è anche l’attuale Ministro degli Interni, il siciliano di Agrigento, Angelino Alfano.
“Alfano – ha raccontato D’Amico, collegato in videoconferenza con l’aula bunker del carcere Ucciardone di Palermo – è stato portato da Cosa nostra che lo ha prima votato ad Agrigento, ma anche dopo. Poi Alfano ha voltato le spalle ai boss facendo leggi come il 41 bis e sulla confisca dei beni”. Alfano è stato candidato per la prima volta alle elezioni regionali del 1996. Eletto nel collegio di Agrigento nella lista di Forza Italia. Ed era molto sostenuto dal suo partito, tant’è vero che, pur non avendo alcuna esperienza parlamentare, venne nominato capogruppo di Forza Italia al Parlamento siciliano, incarico che, di solito, si assegna a chi ha una certa esperienza.
Per la cronaca, Alfano non è estraneo alle vicende che coinvolgono i migranti. Da Ministro degli Interni ha patrocinato l’operazione Mare Nostrum, iniziativa filantropica che può essere vista anche da un’altra angolazione: quella di chi ha tratto grandi vantaggi dalle navi italiane che andavano (e vanno ancora, anche se sotto l’egida di una non a caso un po’ riottosa Unione europea) a caricare i migranti nel cuore del Mediterraneo. Agevolando – ovviamente senza volerlo – il lavoro di chi gestisce questo business. Sempre per la cronaca, un altro parlamentare vicino ad Alfano, Giuseppe Castiglione (fa parte della stessa formazione politica: il Nuovo centrodestra democratico) sottosegretario all’Agricoltura, è coinvolto nell’inchiesta sul Cara di Mineo, il mega centro di accoglienza che ha sede, per l’appunto, a Mineo, in provincia di Catania.
Un altro personaggio tirato in ballo da D’Amico è l’ex presidente del Senato, Renato Schifani, già indagato per concorso esterno in associazione mafiosa (indagini archiviate). Il collaboratore di giustizia non risparmia Forza Italia, formazione politica che sarebbe stata sostenuta direttamente da Totò Riina e Bernardo Provenzano. “I boss – ha detto D’Amico – votavano tutti Forza Italia, perché Berlusconi era una pedina di Dell’Utri, Riina, Provenzano e dei Servizi. Forza Italia è nata perché l’hanno voluta loro”. Anche in questo caso le dichiarazioni, da sole, non bastano. Al massimo, possono acquisire ulteriore credibilità, visto che non è la prima volta che si ascoltano queste ricostruzioni.
Lo scenario cambia e diventa più interessante se queste considerazioni del collaboratore di giustizia – che ci riportano alle elezioni politiche del 1994 e alle elezioni regionali siciliane del 1996 – vengono ‘filtrate’ dalla politica. Il ‘filtro’, in questo caso, è rappresentato da quanto avvenuto in certi quartieri di Palermo nella campagna elettorale per le elezioni politiche nazionali del 1994, quando ai manifesti di Leoluca Orlando – che era stato eletto sindaco della città con quasi il 70 per cento dei voti nel novembre del 1993 – sono stati sostituiti i manifesti degli esponenti di Forza Italia. Il successo di Forza Italia, nel 1994, fu la novità della politica italiana. Ma a Palermo, agli occhi degli osservatori di cose politiche, destò molta impressione, perché rispetto ad alcuni mesi prima, in tante aree della città, il voto si presentava capovolto al novanta e, in certi casi, al cento per cento! E queste cose a Palermo non avvengono per caso.
Due anni dopo le elezioni politiche e le elezioni regionali segnarono una controtendenza rispetto all’andamento del voto nazionale: ancora una vittoria del centrodestra. Nulla da dire, visto che in democrazia il voto è libero. A parte certi passaggi sulle elezioni regionali dove aree tradizionalmente democristiane ‘svoltano’ completamente in direzione del partito di Berlusconi. Anche questa fu una stranezza, perché in quegli anni gli ex democristiani siciliani erano ancora presenti e forti. Anche in questo caso, fatti che non avvengono certo per caso. Anzi.
Stando sempre a quanto racconta D’Amico, il patto tra politica e boss, dopo alcuni anni, si sarebbe interrotto. “All’epoca i politici hanno fatto accordi con Cosa nostra, poi quando hanno visto che tutti i collaboratori di giustizia che sapevano non hanno parlato, si sono messi contro Cosa nostra, facendo leggi speciali, dicendo che volevano distruggere la mafia”.
Un passaggio delle dichiarazioni di D’Amico è dedicato alla Massoneria di Messina e dintorni. E non potrebbe essere altrimenti, visto che nel messinese i ‘grembiuli’ sono, da sempre, molto attivi. Il collaboratore di giustizia fa riferimento, in particolare, a una loggia massonica. “Ne facevano parte – dice D’Amico – uomini d’onore, avvocati e politici, e la comandava il senatore Domenico ‘Mimmo’ Nania (ex parlamentare nazionale ed ex vice presidente del Senato prima in An e poi nel Pdl): a questa (loggia ndr) apparteneva anche Dell’Utri”. In questo caso, la fonte del collaboratore di giustizia è il già citato Rotolo, il boss di Palermo con il quale condivide tra il 2012 e il 2014 l’ora d’aria. “Mi raccontò – dice sempre D’Amico – che i servizi avevano fatto sparire dal covo di Riina un codice di comunicazione per mettersi in contatto con politici e gli stessi agenti dei servizi”. E qui torniamo alla tormentata storia della cattura di Riina, quando i vertici delle forze dell’ordine decisero di non andare a perquisire il covo del boss dei boss della mafia siciliana. Una pagina nera della storia della Repubblica italiana destinata, come in molti altri casi, a restare avvolta nel mistero.
Il boss di Pagliarelli avrebbe fatto a D’Amico anche rivelazioni sulla latitanza di Provenzano: “Mi disse anche che Provenzano era protetto dal Ros e dai Servizi e non si è mai spostato da Palermo, tranne quando andò ad operarsi di tumore alla prostata in Francia”. Altra storia incredibile, che è costata la vita al medico Attilio Manca, anche se non mancano i tentativi di imbrogliare le carte anche in questa storia.
Rotolo che racconta a D’Amico i retroscena del piano per assassinare Di Matteo. “Rotolo – dice D’Amico – ne parlava con Vincenzo Galatolo: all’inizio non lo chiamavano per nome, ma lo definivano cane randagio, poi io chiesi di chi parlavano e mi risposero che si trattava di Di Matteo, e che aspettavano da un momento all’altro la notizia dell’attentato”. Il racconto di D’Amico trova un riscontro nelle rivelazioni di Vito Galatolo, figlio di Vincenzo, il boss dei quartieri Arenella e Acquasanta di Palermo. Vito Galatolo già nel dicembre del 2012 ha raccontato del piano di morte che i boss avevano preparato per Di Matteo. “Era stabilito che il dottor Di Matteo doveva morire – racconta sempre D’Amico -. Rotolo mi ha raccontato che i servizi segreti volevano morto prima il dottor Antonio Ingroia, poi Di Matteo. E siccome Provenzano non voleva più le bombe, dovevamo morire con un agguato”. Qui la precisazione è in linea con la strategia di Provenzano, il boss che, dopo le bombe volute da Riina, ha impresso alla mafia una svolta ‘tranquilla’.
Ai riscontri con la ‘filosofia’ di Provenzano si sommano i riscontri con le dichiarazioni di Vito Galatolo, che ha raccontato che l’attentato contro Di Matteo avrebbe dovuto esere fatto a colpi di tritolo, per la precisione, con 200 chilogrammi di tritolo prelevati in Calabria e portati a Palermo. Poi sarebbe giunto il contr’ordine: niente bombe, ma kalashnikov. Anche in questo caso non si può non notare che, appena poche settimane fa, il palazzo di Giustizia di Palermo è entrato in fibrillazione dopo che è venuta fuori la notizia che uomini armati sarebbero stati localizzati nei pressi di un circolo tennistico a quanto pare frequentato da Di Matteo. Il tutto con qualche variazione sul tema: Galatolo ha indicato in Matteo Messina Denaro il possibile mandante dell’omicidio, mentre per D’Amico l’ordine sarebbe arrivato anche da altri ambienti.
“A volere la morte di Di Matteo – dice D’Amico – erano sia Cosa Nostra che i Servizi perché stava arrivando a svelare i rapporti dei Servizi come fece a suo tempo il dottor Giovanni Falcone”. A un certo punto l’attentato al pubblico ministero del processo per la trattativa tra Stato e mefia sembra subire un intoppo. Così Rotolo e Vincenzo Galatolo provano ad inviare D’Amico a Palermo. “Io – dice pentito – dovevo uscire da lì a poco dal carcere e si parlava di delegare me per portare avanti questa cosa”.
Il vero chiodo fisso di D’Amico rimangono i Servizi segreti, supponiamo più o meno ‘deviati’ (ammesso che in Italia ci possano essere Servizi segreti ‘dritti’). “Arrivano dappertutto – dice D’Amico – ed è per questo che altri pentiti come Giovanni Brusca e Nino Giuffré non raccontano tutto quello che sanno sui mandanti esterni delle stragi”. Alla fine D’Amico sembra avere un po’ di paura e, a scanso di equivoci, precisa: “I servizi organizzano anche finti suicidi in carcere: per questo voglio chiarire che io godo di ottima salute e non ho nessuna intenzione di suicidarmi”.
Il richiamo ai Servizi e a Giovanni Falcone – ma la stessa cosa vale per Paolo Borsellino – ci riportano all’inizio di questo articolo: e cioè al fatto che Di Matteo, nell’Italia di oggi, è un sopravvissuto. Basti pensare all’ostracismo manifestato dalla politica verso il processo sulla trattativa tra Stato e mafia. E alle polemiche che hanno coinvolto il Quirinale, ovviamente negli anni in cui il ruolo di Presidente della Repubblica era ricoperto prima da Oscar Luigi Scalfaro (tutta l’incredibile storia delle agevolazioni convesse ai boss per evitare altri attentati: cosa, questa, ammessa anche da intellettuali che si cimentano con i libri scritti per difendere ciò che è indifendibile: ah, quanta scuola ha fatto Vincenzo Monti, il poeta che celebrava i potenti…) e poi da Giorgio Napolitano (le incredibili telefonate quirinalizie dell’ex Ministro, Nicola Mancino, che, in sostanza, fa sapere che se non gli avessero salvato il culo si sarebbe tirato dietro mezza Repubblica).
L’alterigia di politici italiani verso il processo sulla trattativa tra Stato e mafia (al netto dei politici che sono finiti in questa storia magari grazie all’eredità politica e criminale di Vito Ciancimino) dà la misura del ‘disappunto’ – ovviamente nascosto, ma non per questo invisibile – di chi, oggi, avrebbe voluto dispensare a Di Matteo morto le solite sceneggiate istituzionali che si riservano ogni anno a Falcone e a Borsellino, quando lo Stato che li prima li aveva avversati e poi eliminati li va a celebrare.