Insieme con le prime scorribande dell’Isis in Libia, sono cominciate le dichiarazioni ufficiali dei politici italiani. Molte. E spesso contraddittorie. A cominciare da quelle del premier Matteo Renzi che più volte si è detto pronto ad intervenire anche militarmente nel Paese nordafricano. Salvo poi fare marcia indietro e dire che l’Italia interverrebbe solo a capo di una missione di pace coordinata dall’ONU.
A fargli eco i ministri degli Esteri, Paolo Gentiloni, e della Difesa, Roberta Pinotti, per i quali l’Italia è pronta ad andare a “combattere” l’avanzata dello Stato Islamico con l’invio di “5mila uomini”. Ancora una volta immediate le smentite: si tratta solo di “un’ipotesi, non c’è alcuna decisione”, ha detto la Pinotti. E, a conferma di ciò, Renzi ha dichiarato: "Voglio dare un segnale di tranquillità all'Italia. Conosciamo come stanno le cose e siamo in grado di intervenire", sottolineando, però, che la leadership italiana sarebbe “diplomatica” e di “peacekeeping”.
Intanto, anche l’Italia ha sospeso le attività della propria ambasciata (l’ultima rimasta) a Tripoli e ha avviato un’operazione per il rimpatrio degli italiani residenti nel Paese nordafricano a bordo di un mercantile maltese (noleggiato, pare, in fretta e furia). Ancora una volta, la Farnesina si è sforzata di tranquillizzare gli animi dicendo che “si sta svolgendo una delle preannunciate operazioni di ‘alleggerimento’ dei connazionali presenti” e che “non è in corso un’evacuazione” dalla Libia.
Operazioni normali o di routine che, però, non giustificano l’intensa attività della Marina Militare italiana nel Mediterraneo. Nei giorni scorsi, infatti, alcune navi militari hanno lasciato i porti di La Spezia e di Taranto dirette verso la Libia, “formalmente” impegnate in un’esercitazione. Sono in molti, però, gli analisti che ritengono che lo scopo potrebbe essere un altro. Si tratta, con tutta probabilità, di una missione destinata a proteggere gli interessi economici italiani nel Paese. A cominciare proprio dalla costa, da dove parte il Greenstream, il gasdotto subacqueo dell’Eni, che dalla stazione di compressione di Mellitah attraversa il Mediterraneo per 520 km e porta gas combustibile fino a Gela, in Sicilia. Uno dei gioielli dell’Ente Nazionale Idrocarburi. Una struttura, che, fino a non molto tempo fa, era protetta dagli uomini dell’esercito regolare libico. L’impianto, infatti, si trova in una zona calda, da sempre ad elevato rischio: due anni fa, proprio il terminal di Mellitah fu assaltato dai berberi che provocarono gravi danni.
La paura è che i gruppi armati dell’Isis riescano ad impossessarsi degli impianti e chiedano un riscatto di milioni di euro. Timori confermati dall’intensificarsi degli attacchi dei guerriglieri che, nei giorni scorsi, hanno preso il controllo dei pozzi di Al Bahi e di Al Mabrouk, a sud est di Sirte, e hanno bombardato l’oleodotto che li collega e il terminal petrolifero di Sidra, il maggiore della Libia.
La conferma che la missione delle navi della Marina non sia una semplice esercitazione viene anche dalla partecipazione di alcuni corpi speciali, del gruppo operativo degli incursori e dei paracadutisti. “In queste settimane, la Marina Militare sta intensificando le manovre in Mediterraneo e dal 2 marzo ritornerà ad effettuare l’esercitazione ‘Mare Aperto’ nelle acque del Tirreno e dello Ionio, con il dispiegamento di buona parte delle unità disponibili”, è riportato in un comunicato ufficiale della Marina Militare. Ma, come ha detto il generale Arturo Nitti, comandante della Brigata Sassari, “se verrà chiamata, la Brigata Sassari sarà pronta a fare la sua parte”.
Di fronte al rischio di non poter ricevere il gas proveniente dalla Russia (a causa degli scontri con l’Ucraina e dopo le minacce di Putin degli ultimi giorni), il combustibile proveniente dalla Libia è diventato di importanza prioritaria per l’Italia.
Importanza che, invece, non sembra essere percepita dagli altri Paesi del Patto Atlantico: nei giorni scorsi, il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg ha informato il premier Renzi che di intervento militare da parte della Nato non se ne parla. A conferma di ciò, la discussione non è stata neanche messa in agenda. Anche i colloqui di riconciliazione mediati dall’inviato delle Nazioni Unite, Bernardino Leon, sono stati rinviati a data da destinarsi.
Inutili le richieste d’aiuto di Abdullah al Thani, capo del governo internazionalmente riconosciuto, che ha criticato questo comportamento accusando “Usa, Gran Bretagna e i Paesi dell’Ue per non aver fornito armi”. Armi e armamenti che, invece, sembrano non mancare ai terroristi dell’Isis. A denunciarlo è stato proprio Abdullah al Thani: “La coalizione dell’Alba Libica è parte di una milizia islamica che riceve armi, munizioni e rifornimenti da tutto il mondo. Ma l’America e la Gran Bretagna hanno altre idee, contrarie all’interesse del popolo libico”.
La realtà è che nel 2011, prima dell’assalto alla Libia da parte dei Paesi del Patto Atlantico e della caduta di Gheddafi, la Libia era uno dei maggiori produttori di petrolio: forniva 1,6 milioni di barili al giorno di greggio. Ad ottobre dello scorso anno la fornitura di petrolio era scesa a 900mila barili al giorno. Che sono diventati 300mila a gennaio. E dopo il bombardamento dei giorni scorsi, la produzione è crollata a 180mila barili.
La situazione continua a peggiorare giorno dopo giorno. E non solo sotto il profilo della produttività: oggi in Libia ci sono solo caos, guerra e partenze sui barconi per la Sicilia (che, spesso, riempiono il Mediterraneo di morti). La “missione di pace” che ha rimosso il “dittatore” Gheddafi non ha portato in Libia né “pace” né “democrazia”: oggi ci sono due governi rivali ciascuno con il proprio Parlamento e il proprio esercito. Ma non basta. In questo stato di totale confusione il Paese è ormai preda e bersaglio di milizie e organizzazioni terroristiche che piano piano si stanno appropriando dei pozzi petroliferi e che potrebbero interrompere il flusso di gas verso l’Europa…
Dopo quello in Afganistan e quello in Iraq, un altro successo per le missioni di pace dell'Onu…