Sabato 30 aprile, è morto all’età di 54 anni il più noto procuratore sportivo italiano, Carmine “Mino” Raiola.
La famiglia del procuratore ha annunciato la sua morte con un comunicato pubblicato sul profilo Twitter dell’agente: “Con infinito dolore annunciamo la scomparsa di Mino, il più straordinario procuratore di sempre. Mino ha lottato fino all’ultimo istante con tutte le sue forze proprio come faceva per difendere i calciatori. E ancora una volta ci ha resi orgogliosi di lui, senza nemmeno rendersene conto. Mino è stato parte delle vite di tanti calciatori e ha scritto un capitolo indelebile della storia del calcio moderno. Ci mancherà per sempre e il suo progetto di rendere il calcio un posto migliore per i calciatori sarà portato avanti con la stessa passione“.

I calciatori più importanti rappresentati da Raiola includono Dennis Bergkamp, Pavel Nedved, Zlatan Ibrahimovic, Paul Pogba, Mario Balotelli, Erling Haaland, Matthijs De Ligt, e Marco Verratti.
È morto. Anzi no, non è morto. Falso allarme!
Già giovedì scorso si era diffusa la notizia della morte del procuratore calcistico. La falsa notizia sulla morte di Raiola è stata diffusa da tutte le principali testate nazionali italiane, tra cui la Gazzetta dello Sport, RAI, SportMediaset, Tuttosport, Corriere della Sera, Repubblica, Sole24Ore ecc. In seguito, la notizia è stata ripresa anche da alcuni siti minori all’estero.
Tuttavia, dopo appena un paio di ore, la notizia della sua morte è stata smentita da un messaggio postato sul profilo Twitter dello stesso procuratore: “Current health status for the ones wondering: pissed off second time in 4 months they kill me. Seem also able to ressuscitate.” Tradotto in italiano: “Stato di salute attuale per chi se lo chiede: incazzato. È la seconda volta in 4 mesi che mi uccidono. Sembrano anche in grado di risuscitarmi”.
La notizia della morte era stata smentita anche dal braccio destro di Raiola, José Fortes Rodriguez: “Sta molto male, è in una brutta situazione ma non è morto”. E sempre via Twitter erano arrivate le parole di Alberto Zangrillo, primario dell’Unità Operativa di Anestesia e Rianimazione del San Raffaele di Milano: “Sono indignato dalle telefonate di pseudo-giornalisti che speculano sulla vita di un uomo che sta combattendo”. Poi, scovato dall’Ansa fuori dall’ospedale, lo stesso Zangrillo ha detto: “Quella che è stata scritta è una balla: è tutto sotto controllo”.
Il tweet di Raiola dove dice che “è la seconda volta in 4 mesi che mi uccidono” si riferiva al fatto che lo scorso gennaio si erano diffuse voci su un suo ricovero d’urgenza al San Raffaele per un intervento chirurgico, smentite poi dal suo entourage con un comunicato: “Mino Raiola è stato sottoposto a controlli medici ordinari con necessità di anestesia. Si tratta di controlli programmati, non c’è stato nessun intervento d’urgenza”.
Indiscutibilmente, il 28 aprile di quest’anno rappresenta un giorno nefasto per il giornalismo italiano, già tristemente notorio tra i colleghi dei media stranieri perché le principali testate italiane commettono molto spesso una serie di errori, piccoli e grandi, sicuramente non altrettanto frequenti nei media stranieri.
Ma se è vero che alla maggioranza dei giornalisti italiani non interessa la precisione dei loro servizi, ce ne sono alcuni che si rendono conto della gravità di questa cattiva abitudine. “Verificare se uno è morto o meno è il livello zero del giornalismo”, ha scritto un collega italiano. Aggiungendo: “E va male”.

La notizia della presunta morte di Mino Raiola, diffusa da moltissime testate giornalistiche e successivamente smentita dal medico e dal diretto interessato, sarebbe dovuta servire ad aprire una discussione – che invece non c’è stata – sulla scarsa qualità del giornalismo italiano, e su come l’ansia di dare una notizia prevalga sulla premura di verificarla.
Su un pagina Facebook utilizzata dai giornalisti italiani per discutere di questioni che riguardano la professione non si è tentato di capire perché è successo questo grave incidente di percorso e come fare per evitarne altri simili in futuro. Al contrario, vari giornalisti hanno respinto sdegnosamente di chi accusava il giornalismo italiano di scarsa professionalità, rispondendo loro che quando una notizia viene battuta da più di un’agenzia stampa diventa imperativo darla subito per battere la concorrenza; che oggi ci sono troppe notizie da seguire, troppe edizioni dei telegiornali da preparare, troppi aggiornamenti da fare sui siti per poter perdere tempo a verificare una notizia che veniva data per buona – anche perché a lanciarla pare sarebbe stato uno dei collaboratori del Professor Zangrillo.
Questo atteggiamento deriva da un misto di ignoranza, pigrizia, stupidità e arroganza che contraddistingue la maggioranza dei giornalisti italiani e spiega perché i media italiani in generale – e non solo i giornali – siano pieni zeppi di errori di ogni genere. Nello specifico, tali errori avvengono perché nessuno si prende la briga di cercare o verificare dati, fatti, nomi, ecc. facendo una ricerca su Google che, in media, richiederebbe una ventina di secondi. Anni fa, feci presente questa situazione ai caporedattori e ai direttori dei principali quotidiani italiani. La risposta che ebbi da loro è stata: “Tanto è uguale”. E questo spiega tutto!
In base a quanto ho potuto determinare studiando i principali media italiani per oltre tre decenni, la maggioranza dei giornalisti italiani ignora il principio etico secondo cui le notizie debbano essere riportate in modo preciso e completo, per cui bisogna sempre verificare i singoli fatti, i nomi, e i dati contenuti in ciascun articolo. Diversamente, nel giornalismo anglosassone è universalmente riconosciuta la validità del detto: “Everyone needs an editor”, e cioè “Tutti hanno bisogno di qualcuno che riveda e, se necessario, dia una sistemata ai loro articoli”.
I problemi qui menzionati dipendono dal fatto che nei giornali italiani da svariati decenni non esiste più la figura del copy editor, come lo chiamano agli americani, il sub-editor per gli inglesi, cioè colui che controlla e, se necessario, riscrive i pezzi. Non ci sono i fact-checkers, coloro che sono incaricati di verificare l’esattezza dei dati e di tutte le dichiarazioni controverse contenute in un articolo, oltreché di assicurarsi che queste ultime siano tutte attribuite a delle fonti. Senza il placet degli editors, in special modo sui giornali americani, non verrebbero mai pubblicati articoli che potrebbero dar luogo a contenziosi legali.
Nel giornalismo televisivo questo processo di controllo ed eventuale riscrittura del servizio avviene prima che venga autorizzato il montaggio dello stesso, e addirittura vengono concordati gli argomenti dei collegamenti in diretta. E questo avviene sempre, sia per i reporters che montano i loro servizi in redazione o sul campo, sia per gli eventuali inviati all’estero!
Come abbiamo sottolineato, con la scusa del tempo – ma in realtà soprattutto per pigrizia – i giornalisti italiani non controllano quasi mai cifre o dati, che spesso sono inventati completamente. E dato che copiare il lavoro dei colleghi è una pratica corrente, se il primo a scrivere un pezzo – solitamente per l’ANSA o un’altra agenzia – non verifica o s’inventa una cosa, la sbagliano tutti gli altri.
Bisogna chiarire un punto fondamentale: effettuare le verifiche necessarie in ogni singolo caso non dipende dal tempo ma da un atteggiamento, da una decisione presa a priori. Per gli americani è indiscutibile che sia sempre necessario effettuare le verifiche, per cui il tempo per farle si trova sempre. Parimenti, quando non interessa effettuare le verifiche, quando giornalisti, caporedattori e direttori dei media italiani dicono che “tanto è uguale”, ecco che dedicare del tempo ad una verifica diventa uno spreco di tempo.
“If it’s too good to be true, it probably ain’t.” “Se una notizia è troppo buona per essere vera, probabilmente non lo è!” In quei casi, un professionista serio verifica e, a costo di essere battuto dalla concorrenza, non la pubblica sinché non è sicuro che sia vera o falsa, e allora, la ignora a prescindere da ciò che fanno gli altri.
In Italia, non si verificano mai le notizie, nemmeno quelle che più puzzano di bufala. Ho parlato di questa realtà con i caporedattori ed i direttori dei tre più importanti quotidiani italiani, e mi hanno risposto così. “Se il nome di qualcuno è scritto male, se è sbagliata la data di nascita o qualche piccolo particolare, non importa perché tanto la maggior parte della gente non se ne accorgerà. Tanto è uguale”.
Chiaramente, i media stranieri e in particolare quelli americani non la pensano così. E quel che è ancora peggio è che abitualmente i media italiani non sono soliti rettificare, ammettendo l’errore. Nella maggioranza delle situazioni, se l’errore fa scalpore o se una notizia si rivela essere una bufala, la si toglie dal sito e finisce così.
D’altronde, perché ci si dovrebbe scandalizzare per qualche errore quando la maggioranza degli articoli che riguardano la politica interna sono inventati di sana pianta, e giornali e TG italiani diffondono principalmente propaganda invece della buona informazione?
Personalmente, considero una condicio sine qua non per fare il giornalista la consapevolezza della nostra missione, cioè la comprensione e la condivisione del fatto che il nostro mestiere va concepito come una specie di sacerdozio laico, dove un buon giornalista dedica la sua vita al servizio dei cittadini e al tentativo di rendere migliore la società in cui viviamo.
A proposito della missione del giornalista, accludo una clip del corrispondente della CNN+ (il canale dedicato della CNN che veniva diffusa in streaming e che dopo meno di un mese è stata chiusa, e domenica è andata in onda per l’ultima volta) Bill Weir, che a 3’40” della clip qui allegata dice:
“Forgive me for being corny, we take this job as a calling, we think journalism is the beating heart of any democracy and, after covering natural disasters, I realize that – after shelter and water and food -–information is a life-saving resource! And that’s why we go out in the world and try to keep you abreast of things that are changing so fast all around us!”
[“Perdonatemi se vi sembro sciocco o mellifluo, ma noi crediamo che questo lavoro sia una missione, noi pensiamo che il giornalismo sia il cuore pulsante di ogni democrazia e, dopo avere coperto disastri naturali, mi rendo conto che – dopo un riparo e il cibo e l’acqua – l’informazione sia una risorsa che permette di salvare le vite. Ed è per questo che ci avventuriamo in giro per il mondo e tentiamo di tenervi informati riguardo a tanti fenomeni che sono in costante e rapido cambiamento ovunque intorno a noi”!]
Partendo dai concetti di servizio pubblico e della missione del giornalista, diventa indispensabile seguire i principi etici che governano la pratica del giornalismo e sono alla base delle regole fondamentali del nostro mestiere. Primo fra tutti la necessità di verificare ogni notizia, ogni fatto, ogni dettaglio – VERIFY VERIFY VERIFY – e di NON dare mai una notizia se non è stata verificata. Inoltre, salvo eccezioni, è sempre necessario trovare due fonti indipendenti per le notizie più importanti.
Questa regola è alla base del giornalismo americano, tanto che molti anni fa su una parete della redazione del Chicago Tribune c’era affisso un cartello che diceva “If your mother says she loves you, check it out!”: “Se tua madre dice che ti vuole bene, verificalo”! Parimenti, alla BBC News si diceva che “È preferibile arrivare secondi con una notizia verificata che primi con una notizia sbagliata”.
Nel mese di giugno del 1993, quando lavoravo come corrispondente della CNN a Roma, una notte mi telefonò da Atlanta, dalla sede centrale della rete all-news, l’assignment editor di turno del desk esteri, avvisandomi di aver appena visto una notizia d’agenzia (non ricordo se Reuters o AP), secondo la quale alcuni minuti prima si era verificato un attentato terroristico a Roma. Gli chiesi se avesse maggiori dettagli e mi disse che l’attentato era avvenuto nel quartiere Parioli. Dissi al caporedattore di bloccare l’uso della notizia finché non fossi riuscito a verificare e a confermare o smentire la notizia.
Il fatto che l’attentato fosse avvenuto ai Parioli mi aveva insospettito, perché all’incirca un mese prima, il 14 maggio 1993, era stato compiuto un attentato terroristico facendo esplodere un’autobomba contro il conduttore televisivo Maurizio Costanzo, che era scampato al tentativo di omicidio. Quell’attentato, organizzato dalla Mafia, era avvenuto a Roma in Via Ruggero Fauro, situata nel quartiere Parioli, localizzata a poco più di un chilometro in linea d’aria dalla casa in cui abitavo a quel tempo. Ma in questa serata di giugno non avevo sentito né il rumore di un’esplosione e nemmeno il rumore delle sirene dei mezzi di soccorso.
Chiamai la Questura e la Centrale dei Vigili del Fuoco e ottenni la conferma da entrambi che a Roma non c’era stato alcun attentato ai Parioli o altrove. Chiamai la redazione esteri ad Atlanta e riferii al caporedattore che non c’era stato alcun attentato a Roma. Probabilmente, questo incidente era stato causato da un malfunzionamento di un qualche computer nella sede romana dell’agenzia che aveva fatto partire una notizia in memoria.
Non ho mai saputo quel che era successo, ma un opportuno lavoro di verifica da parte mia, coordinato insieme al caporedattore di turno ad Atlanta, ha permesso di evitare che la CNN desse una notizia falsa. Le mie verifiche hanno richiesto pochi minuti, ma io e il collega eravamo entrambi certi del fatto che fosse necessario fare un controllare ed anche bloccare la messa in onda della notizia non verificata.
Nello stesso periodo in cui ero corrispondente incaricato di seguire le notizie dall’Italia e dal Vaticano per la CNN, nel corso degli anni c’erano stati diversi momenti – a prescindere dall’attento eseguito da Ali Agca – in cui il papa si trovò in fin di vita. Premesso che c’era la consapevolezza che Papa Giovanni Paolo II sarebbe potuto anche morire nel corso di una cerimonia ufficiale, in diretta televisiva, avevo insistito con i capi ad Atlanta che se fosse capitato che un’agenzia annunciasse la morte del papa durante la notte mi avrebbero dovuto chiamare immediatamente e dovevano assicurarsi che la notizia NON venisse data finché non l’avessi verificata di persona, chiamando a casa il portavoce ufficiale del Vaticano. Eravamo quindi d’accordo che la notizia della morte del papa venisse data soltanto dopo il mio OK. E questo perché, soprattutto in un caso importantissimo come questo, si dava per scontato che fosse indispensabile dare la notizia giusta!
Ovviamente, i principi etici e le regole sono valide ancor oggi, anche se non sono condivisi allo stesso modo da un numero crescente di giornalisti che privilegiano gli aspetti economici – preoccupandosi principalmente del marketing – alla correttezza del lavoro.
Questo conflitto e il genere di pressione a cui possono essere sottoposti i giornalisti televisivi è evidenziato in modo estremamente chiaro nella clip qui acclusa proveniente dalla serie televisiva The Newsroom, di Aaron Sorkin. Il conduttore di un canale all news è sottoposto ad enorme pressione per dare una notizia (falsa) ma che è già stata diffusa da tutta la concorrenza. Will McAvoy (l’attore Jeff Daniels) si rifiuta di farlo perché crede che un buon giornalista deve sempre rispettare i principi etici e le regole del buon giornalismo.
In questa scena possiamo condividere una situazione tipica quando arriva nella redazione una notizia di breaking news importante. C’è il capo del marketing che invade lo studio in cui si registra il TG e ordina al protagonista, l’anchorman Will McAvoy, di annunciare la morte di una donna – la parlamentare dell’Arizona, Gabrielle Gifford – a cui hanno sparato perché “le altre testate la danno per morta” e “ogni secondo sprecato a non darla significa la perdita di migliaia di spettatori”.
In redazione, nei minuti che procedono la messa in onda di un’edizione straordinaria, diventa possibile trovare una conferma indipendente della morte della Gifford, per cui McAvoy non vorrebbe annunciare la morte. Il producer Don, al quale viene chiesto di mettere pressione sul conduttore, risponde: “È una persona, un dottore può annunciare la sua morte, non un telegiornale”. L’anchorman decide quindi di continuare a non dare la notizia della morte, finendo per avere ragione perché un paio di minuti dopo arriva la notizia che la donna non è morta e sta per essere operata d’urgenza.
Questa scena mostra in maniera magistrale il conflitto che accade regolarmente in queste situazioni frenetiche, in cui occorre decidere di dare o meno una notizia non verificata, nel rispetto da un lato delle regole che inducano ad agire con cautela, e dall’altro la pressione a dare la notizia pur senza averla verificata, per la necessità di arrivare primi, principalmente per ragioni economiche. Qui si evidenzia come sia necessario pensare responsabilmente, anche quando la pressione è tanta e ci sono pochi secondi a disposizione per prendere la decisione “giusta”. Un lasso di tempo ristrettissimo, per cui si può sbagliare, come è successo più di una volta, anche ai colleghi americani.
Vale la pena sottolineare che la scena qui riportata da The Newsroom, si riferisce ad un caso veramente successo e cioè della sparatoria in cui rimase coinvolta la parlamentare Gabriele Gifford, l’8 gennaio 2011, a Tucson, in Arizona. In questo caso particolare, molti importanti media americani, tra cui la prestigiosa NPR (National Public Radio), dettero la notizia della morte della Gifford senza avere trovate conferme inconfutabili e, tra i giornalisti americani, questo grave “incidente di percorso” stimolò un dibattito sulla necessità di rispettare le regole del buon giornalismo.
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