I giorni dopo il flop con l’Irlanda sono più inquietante della partita che ha costretto l’Italia al playoff del marzo prossimo, unica via d’accesso rimasta per non rimanere fuori dal Mondiale per la seconda volta di fila e diventare ufficialmente una Nazionale di serie B.
Si è levato alto il coro degli Azzurri, a caccia dell’autostima perduta: “Temiamo solo il Portogallo”, hanno detto tutti, dal Ct in giù. Ovvio: agli Azzurri che la via del gol non la trovano più neppure giocando con il Gps in tasca, fa paura Ronaldo. Ma non si capisce perché ad una squadra che nelle tre partite decisive per la qualificazione non ha battuto né Bulgaria né Svizzera e neppure l’Irlanda del Nord, non debba fare paura anche la Svezia di Ibra, la Russia, il Galles, la Norvegia. Chiunque dovrebbe farle paura, adesso.
A iniziare da se stessa. Era dall’autocritica che l’Italia avrebbe dovuto ricominciare il lungo allenamento (mentale) che la porterà agli spareggi. Pensa prima a te stesso che a Ronaldo. A te che hai perso le chiavi del gioco; a te che delle ultime cinque partite ne hai vinta una sola, buttando via una qualificazione che pareva in cassaforte; a te che dall’allegria sei passata, chissà perché, alla tristezza; a te, che sei l’ombra della squadra spregiudicata, divertente e divertita che si è portata a casa l’Europeo.
Non è mica passato un secolo. Cinque mesi fa la finale di Wembley. Sono stati sufficienti per avviare una metamorfosi davvero kafkiana: l’uomo che in una notte diventa insetto, quasi incapace di muoversi. Come se i giorni delle vittorie e della fantasia fossero stati una parentesi e non un processo di crescita definitivo, certificato da 37 partite senza macchia.
E allora lascia stare Ronaldo e Ibra e invece che ai mostri (di bravura) che giocano con gli altri, pensa ai ‘mostri’ che si sono impossessati della tua testa e delle tue gambe, riportandoti a essere piccolo e tremebondo, come quattro anni fa.
Le assenze: quelle di Chiellini, di Verratti e di Immobile hanno pesato, è ovvio. Eppure nei giorni delle vittorie all’Olimpico e a Wembley chiunque entrasse in campo aveva carattere, aveva voglia di stupire e aveva negli occhi la lucida determinazione di chi non teme nessuno. Entravano i ragazzini e parevano veterani. Oggi entrano i veterani e sembrano ragazzini: come Jorginho dal dischetto, tanto per capirci.
Sta qui la differenza sulla quale Mancini e i suoi bravi ragazzi devono lavorare. Per tornare a essere sfacciati e vincenti non ha senso indicare il più forte (Ronaldo, certo) come unico avversario, quando le catene ai piedi non te le ha messe nessun fuoriclasse: le avversarie che ti hanno costretto agli spareggi, Svizzera inclusa, di fuoriclasse non ne avevano neanche l’ombra. Semplicemente erano più ‘squadra’ di te. E se l’Italia non torna a essere una squadra, quei playoff li potrà perdere contro chiunque, non solo se sulla sua strada gli si para il marziano con la maglia numero 7.
Serve un ‘outing’ di stampo sportivo. Serve ammettere le proprie debolezze per recuperare la propria forza, non indicare i più bravi, che oggi più bravi sono quasi tutti, Irlanda del Nord compresa.
Se l’Italia non cancella in fretta dalla sua testa il capolavoro che creò lo scorso giugno, è spacciata. Se continua a rimirarsi nello specchio delle sue brame, chiunque pescherà nel sorteggio del prossimo 26 novembre rischierà di essere una montagna insormontabile.
Ci arrivano dodici squadre. Sei le teste di serie: Portogallo, Scozia, Russia, Svezia e Galles oltre all’Italia. Le quattro peggiori seconde dei gironi di qualificazione e le due che meglio si sono piazzate nella Nations League, dietro a quelle già qualificate. Tre gironi con due teste di serie e due no. Le prime due partite (24 e 25 marzo) di ogni girone designano le semifinaliste che si giocheranno la finale il 28 o il 29 marzo. Le tre vincitrici di ciascun girone vanno ai Mondiali del prossimo autunno in Qatar.
Due partite da vincere, quindi. Non ci sono mezze misure. O l’Italia va al Mondiale o sprofonda di nuovo nella mediocrità e nello smarrimento di quattro anni fa. Parevano solo un brutto ricordo, invece è un incubo ricorrente.