Un punto in classifica dopo tre giornate di campionato: per ora la Juve è allo stesso livello di Spezia e Cagliari. Peggio di loro soltanto Salernitana e Verona. Nella storia bianconera non era mai successo. Ma neppure era successo che cambiasse tre allenatori (Allegri, tornato quest’anno, poi Sarri e Pirlo) in tre stagioni. Men che meno che venissero scaricati anche quelli (Allegri e Sarri) che hanno vinto lo scudetto.
Juve in zona retrocessione. E’ clamoroso, ma spiegabile. Forse così: se esoneri chi vince il campionato, perché il tuo obiettivo principale (e fallito) era la Champions, il messaggio che spedisci alla squadra è che del campionato ti importa il giusto. Dopodiché diventa difficile pretendere che la squadra affronti la serie A con le giuste motivazioni. La controprova viene dalla stessa Champions, dove la Juve ha appena debuttato (a Malmoe, in Svezia) vincendo per tre a zero.
Rimane questa imbarazzante posizione in classifica che sta facendo divertire mezza Italia, perché, com’è noto, l’altra metà è juventina, quindi sofferente e silenziosa. Chi è negli impicci, dice che non ci si deve lamentare ‘tanto abbiamo gli stessi punti della Juve’ e chi, come il Bologna è partito forte, si vanta di avere ‘sei punti in più della Juventus’, non di averne fatti sette e in tre partite.
E’ raro che i risultati ammettano un po’ di satira nei confronti della Juve e i suoi avversari ne approfittano per divertirsi, proprio perché sanno che la crisi della Signora non durerà molto. Il tempo di assorbire il contraccolpo infertole dalla partenza di Ronaldo e di rimettere in sesto il portiere polacco Szczesny, che in avvio di stagione ne ha combinate più di Carlo in Francia, e la Juve tornerà se stessa. Portiere, regista e centravanti: dicono che questi tre ruoli siano la spina dorsale di ogni squadra. Se due ‘dischi’ di questa colonna vertebrale sono incrinati (il portiere giù di forma e il grande vuoto lasciato da CR7), correre in campionato verso le prime posizioni è dura: al massimo ti puoi concedere una passeggiata, che è esattamente ciò che la Juve sta facendo adesso. Tocca ad Allegri trovare una medicina efficace e a rilascio rapido.
Potrebbe riuscirci dando un’occhiata a quanto sta accadendo a Roma, sponda giallorossa. Nove punti conquistati dei nove a disposizione e Josè Mourinho (tornato in Italia dopo il Triplete con l’Inter) già pronto per essere incoronato nono Re di Roma, perché l’ottavo, come in molti sanno, è Francesco Totti.
Mourinho sta firmando un capolavoro. Ha smussato gli spigoli del suo carattere che lo portavano a combattere contro chiunque gli si parasse davanti, in particolare i colleghi e i rappresentanti delle istituzioni calcistiche.
Mou è molto cambiato: zero polemiche, pochissime parole. Ha quindi capito bene che in città come Roma e Napoli, se vuoi sopravvivere la prima cosa da non fare è resistere alla calamita della popolarità e dei media che ti vorrebbero sul palcoscenico tutti i santi giorni. La regola è semplice: se lavori in una piazza pronta ad infiammarsi per qualunque dettaglio, tu non devi essere il fiammifero. E allora Josè parla solo quando non può farne a meno (prima e dopo le partite) e il resto (sta qui la sua enorme bravura) lo dice con il linguaggio del corpo, con la mimica e la gestualità.
Nessuna polemica con gli arbitri, garbato con i colleghi e addirittura paterno con gli esordienti e comunque gentile e attento con chi se la sta passando peggio di lui. Impeccabile, insomma. Ma la corsa sotto la Curva Sud dell’Olimpico dopo un gol a tempo quasi scaduto per festeggiare la vittoria nel giorno della sua millesima ‘panchina’, vale, agli occhi del suo pubblico, molto più di qualunque intervista. L’invitare a cena tutta la squadra, il suo staff e la dirigenza per condividere con loro il suo prestigioso traguardo, comunica un senso di appartenenza che lo ha trasformato da intrattabile star dello sport in amico della porta accanto. La sua Roma è già bella, potrebbe diventare stupefacente. Mourinho sta ‘giocando’ in modo magistrale con la fame di vittorie che tormenta chi, come i romanisti, non alzano un trofeo da tredici stagioni.
Dopo Torino e Roma, tocca alla Milano rossonera. Dove si godono il primato in compagnia di Roma e Napoli. E qui scatta l’elogio alla logica e alla normalità, due fattori da rivalutare in questa bolgia di eccessi che da decenni è il nostro calcio. Li ha portati in dote Stefano Pioli che, prima di essere un allenatore, è una persona eccellente. Finisce di rado in prima pagina e questo, nella stagione in cui i presidenti in bolletta hanno puntato forte sugli allenatori poteva essere un problema, poteva alimentare qualche perplessità nei suoi dirigenti. Ma tra quelli del Milan c’è un certo Paolo Maldini che sulla sobrietà ha costruito una carriera meravigliosa e che ha visto subito in Pioli un valore aggiunto, non certo un freno all’entusiasmo.

Allenatore pacato, riflessivo, molto calato nella vita reale, quindi pragmatico, Pioli riesce a trasmettere la sua calma e la sua voglia di vincere a una squadra che pare pronta a rinverdire gli ormai vecchi fasti dell’era Berlusconi.
Di Maldini ne nasce uno ogni tanto; di dirigenti vecchio stampo, pronti a scaricare sull’allenatore le loro responsabilità, come al solito è pieno il campionato: il Verona e il Cagliari hanno più venduto che acquistato, per evitare che i bilanci sprofondassero nel rosso, e dopo tre partite senza risultati, hanno esonerato l’allenatore: Di Francesco ha già lasciato il Verona e Semplici è stato allontanato dal Cagliari. Si alzano i fumogeni per impedire al pubblico di constatare la crisi.
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