Sono nove gli americani che in Italia hanno acquistato club di calcio sull’orlo della bancarotta. Trentaquattro in Europa. Tutti uomini.
Non è il caso, qui, di evocare le quote rosa. C’è stata anche una donna, Norah Bint Saad Al Saud, figlia di uno dei cugini del re saudita Salman, che rappresentava una cordata arabo-statunitense: in viaggio di piacere in Umbria, si innamorò di Spoleto e ne chiese un ‘pezzetto’. Le comperarono la squadra del paese. Poco dopo esplose il Covid, lei scappò senza dir nulla a nessuno e lo Spoleto non si è neppure iscritto al campionato di quinta serie. Chiuso. Non si sa se e quando riaprirà. In Europa le presidenze a stelle e strisce sono trentaquattro. E lo sfizio non c’entra. E’ una questione di affari, roba da centinaia di milioni che diventano miliardi quando i progetti di sviluppo sono legati a nuovi impianti e al business dell’intrattenimento.
La colonizzazione del calcio europeo é iniziata in sordina nel 2000 e da allora è in silenziosa e inarrestabile crescita. Sono Italia e Gran Bretagna le mete più ambite, mentre la Germania si è affrettata a chiudere le frontiere. Dev’essere una questione di indole: va bene non invadere più nessun paese, ma da qui a essere invasi…insomma, non si può pretendere troppo.
Quindi, dopo che gli americani di Red Bull presero il Lipsia in quinta serie fino a portarlo (anche quest’anno) alle qualificazioni per la Champions League, i tedeschi si sono dichiarati autarchici. In casa loro, dove il calcio produce utili, non vogliono estranei.
Negli altri stati europei, dove invece il soccer produce deficit strabilianti, il vecchio welcome yankee è tornato di gran moda. E’ come se in sordina fosse iniziato un nuovo piano Marshall per salvare il calcio bombardato da ingaggi folli, dove le percentuali agli agenti dei campioni sono milionarie e dove regna sovrana l’incapacità di monetizzare la passione di un grande pubblico. Quella che Hornby ha sintetizzato come ‘Febbre a 90’ conta milioni di contagiati. E non c’è vaccino neppure in fase di sperimentazione.
E’ qui il nocciolo della faccenda. Non capivano gli americani come fosse possibile che di fronte a tanta cieca e perenne disponibilità del pubblico non corrispondesse un’industria in grado di produrre utili come l’Nba, la Major League o la Nfl. Adesso ne sanno un po’ di più.
Lo Zio la faceva facile: loro, gli europei, non hanno la nostra stessa visione per gli affari, non sono razionali, invece che mungere lo sterminato gregge garantendo benessere a tutti, si perdono in mille chiacchiere, polemiche, corruzioni, scommesse, burocrazia soffocante. Poi, peccato ancor più grave, la loro passione non dà quasi mai la precedenza alla razionalità. Parlano (in Italia), spettegolano con i tabloid (in Gran Bretagna): in tutti e due i casi sprecano il tempo, poi piangono miseria. E allora andiamo, basterà esportare il modello Usa per dare la scossa a questi europei un po’ rimbambiti da quella miscela di romanticismo e fanatismo calcistico e mostrar loro con quale piglio si affrontano gli affari.
I ‘clandestini’ della Superlega hanno pensato di compiere il cammino opposto. Un progetto attuato male, ma pensato bene: invece che essere noi a cambiare in meglio, andiamo a giocare laddove impresa e cultura dello sport garantiscono gli utili. Non gli è stato concesso, quindi rimangono nel ruolo ormai consolidato di colonizzati.
Il problema è che i colonizzatori l’hanno fatta un po’ troppo semplice. Le regole dell’industria sportiva italiana e britannica sfuggono alla logica imprenditoriale. Meglio: la irretiscono, la consumano, la sfiniscono, infine la fagocitano. Perché lo sport, il calcio in particolare, è un rito secolare, ha abitudini consolidate. Se in Italia pensi di abbattere uno stadio del 1930, ti considerano stupratore della storia. Se vuoi mettere un ristorante a quattro stelle di fianco all’Olimpico, ti rispondono che serve prima un terzino sinistro.

E finisce che gli americani sbarcati in questo pianeta dell’assurdo si italianizzano, invece che convincere il calcio nostrano ad americanizzarsi. Prendi la Roma: dal 2000 ad oggi tre presidenti americani, Thomas Di Benedetto, James Pallotta e ora Dan Friedkin che ha versato al suo predecessore 780 milioni prima di ingaggiare Mourinho che chiede giocatori tutelati dal suo agente di fiducia: a fine estate, prima ancora di iniziare, sarà ‘sotto’ di un miliardo. Friedkin è distributore della Toyota in diversi Stati dell’America: gli saranno utili gli airbag, perché un frontale con i bilanci in apnea lo rischia anche lui.
I milanisti del fondo statunitense Elliott guidano il secondo club (dopo il Real Madrid) più titolato d’Europa e in questi giorni sperano ardentemente nel quarto posto. Il canadese Joey Saputo, che a Montreal gestisce un impero caseario con il padre Lino e il fratello, ha garantito al suo Bologna una lunga vita e il respiro di chi è in ottima salute, ma in sei stagioni non è mai arrivato sopra il decimo posto. Sempre sulla ricca e ‘grassa’ via Emilia c’è il Parma di Kyle Krause, Ceo dell’omonimo gruppo che fa del lusso una miniera d’oro: toccava a lui rinverdire i fasti (fasulli) di Calisto Tanzi e il suo esordio in serie A si è concluso con la retrocessione.
L’ultimo americano è sbarcato a La Spezia, dove a cedergli la poltrona di presidente della squadra locale è stato il petroliere Gabriele Volpi. Si chiama Robert Platek, ha il suo ufficio di analista finanziario a pochi metri dalla Casa Bianca. Alle spalle studi di prestigio e, dicono di lui, un eccezionale fiuto per gli affari. E’ arrivato e, mostrandosi saggio, ha subito detto: “Mi sono innamorato delle Cinque Terre e volevo un valido motivo per venirci spesso”. Ha fatto il romanticone e ha mandato in estasi i suoi nuovi fan.
In realtà, i nuovi presidenti cominciano a capire che è meglio non essere trionfalistici perché nella trappola del calcio-follia ci lasciano le zampe anche le volpi più astute. Quindi, da qualche tempo hanno iniziato a bussare ai club delle province meno vistose e meno onerose. In serie B il Pisa è da pochi giorni nelle mani Alexander Naster (magnate russo-americano con 2.2 miliardi di patrimonio personale). E’ partito in sordina anche lui: “Faremo le cose bene e con calma”.

Robert Hartono è tra i cento uomini più ricchi del mondo. E’ proprietario del Como in serie C: “Mi piace l’idea di ristrutturare lo stadio che si affaccia direttamente sul lago”. In città è apprezzato più lui di George Clooney che allo stadio nuovo per la cittadinanza preferì una villa per se stesso.
In parole povere: gli americani sono arrivati (anzi tornati) pronti a piantare sotto i grandi prati verdi il seme della cuccagna, hanno speso inutilmente montagne di dollars e hanno opportunamente sterzato verso realtà meno complesse e più abbordabili. Forse (gli è già capitato…) tra molti anni, stabilito che vincere sia impossibile, decideranno che è il caso di ritirare le truppe.
In Premier stessa musica. Nel campionato di calcio più bello e più ricco del mondo sono americanizzate l’Arsenal e il Southampton, ma non si registra nessun progresso particolare: sono rimaste nel condominio degli anonimi in cui già stavano da anni.
Ora, ci spiegano gli analisti, gli americani trovano molto più interessanti i paesi meno industrializzati rispetto a Italia e Inghilterra e iniziano a bussare ai club dell’Est europeo, dove da decenni lavorano per crescere campioni e rivenderli. Lì gli affari sono possibili. Da noi quella politica sportiva costa contestazioni, livori, scherno, linciaggio social e scorte delle polizia.
Per ora una sola cosa è chiara: quando il sogno americano incontra la realtà italiana finisce per sedersi all’osteria. Un buon ‘rosso’ e quattro chiacchiere. Di che cosa? Ma di calcio e di che cosa se no.