Correva l’anno 1925 e un piemontese dal nome qualunque – Marone – ma dal marchio altisonante – Cinzano – decise di unire gli ultimi dettami del governo fascista sull’autarchia con lo spirito imprenditoriale. Il signor Marone era il presidente del Torino calcio, la squadra che rivaleggiava alla grande in città con i già blasonati cugini della Juventus, ed era il proprietario della Cinzano. Ma soprattutto, era un italiano cresciuto nei barrios di Buenos Aires, dove l’aria dell’oceano si mischiava alla musica del tango e ai funambolismi dei calciatori di strada.
Tra un dribbling e una rovesciata sui campi approssimativi della metropoli argentina, Marone aveva potuto apprezzare la tecnica particolare che il popolo sudamericano aveva saputo infondere in quello sport inventato, poco più di quaranta anni prima, nell’Inghilterra vittoriana. E nei vari tornei internazionali il funambolismo argentino, uruguagio, paraguaiano e brasiliano avevano aggiunto fascino a un gioco destinato a conquistare intere masse nei vari continenti. Marone non aspettò la Carta di Viareggio con la quale il regime escluse dalle competizioni nazionali tutti gli stranieri. Abile imprenditore, aveva giocato d’anticipo e aveva trovato lo spiraglio adatto ai suoi fabbisogni: giocatori sudamericani figli e nipoti di emigranti italiani. Scelse per la sua squadra granata due nomi destinati a incrinare pericolosamente le relazioni tra Argentina e Italia fascista: Julio Libonatti e Arturo Ludueña Chini. Considerato da Osvaldo Bayer, nella sua storia del calcio argentino, come "il primo attacco coloniale sofferto dal calcio creolo", l’arrivo dei due calciatori oriundi non cambiò sostanzialmente gli equilibri dei tornei; cambiò però l’ottica visuale delle società di calcio e aprì una strada che si sarebbe rivelata ben presto munifica di soddisfazioni. “Libo” si rivelò infatti un ottimo centravanti e indossò praticamente subito l’azzurro savoia della Nazionale, debuttando ufficialmente il 28 ottobre 1926 dello stesso anno a Praga contro la Cecoslovacchia (e segnando anche un gol).
Le prestazioni dell’argentino fugarono (insieme alla supremazia delle squadre sudamericane alle olimpiadi di Amsterdam nel 1928), i residui dubbi sulla bontà del vivaio americano e la risposta juventina all’azzardo torinista non si fece attendere. Portava il nome di Raimundo Bibbieno Orsi, nipote di genovesi, attaccante della nazionale argentina e vera star dei giochi olimpici.
"La sua raffinatezza, l’abilità, la facilità e l’eleganza hanno conquistato l’intero pubblico" scrisse del giocatore la stampa francese e tanto bastò per deciderne l’acquisto. Il trasferimento costò al club bianconero 100.000 lire e nell’autunno del 1928 Orsi sbarcò al porto di Genova, accompagnato dalla moglie, dalla cognata, dal figlio neonato, e da una feroce polemica sull’identità nazionale. A chi si batté per sostenere che il giocatore era un “creolo”, la stampa italiana risposte lapidariamente:"Orsi un creolo? È uno scherzo!".
Considerato italiano reintegrato a tutti gli effetti ("il cittadino italiano nato e residente in un Paese straniero nel quale è considerato nazionale per diritto di nascita conserva la sua cittadinanza italiana" scrisse il governo) Orsi diventò di colpo ricco: stipendio mensile di 8.000 lire (equivalenti a otto volte quello di un medico o di un avvocato), automobile personale e un appartamento, lo ripagarono ampiamente dei magnifici sette anni di militanza italiana, conditi peraltro dal titolo di campione del Mondo. In una Nazionale decisamente votata ai giocatori “italici”, Pozzo ne fece la punta di diamante per il Mondiale del ‘34. Pur avendo già 32 anni, Orsi rispose con entusiasmo alla maglia azzurra e insieme a Luisito Monti e Enrico Guaita consegnò il primo alloro mondiale alla squadra italiana. Luisito Monti poté, nell’occasione, fregiarsi anche di essere l'unico giocatore ad aver giocato due finali mondiali con due maglie nazionali diverse (nel 1930 l’Argentina degli “italici” Botasso, Della Torre, Varallo, Stabile, Paternoster, Evaristo e Monti fu sconfitta dall’Uruguay degli italici Nasazzi, Cea, Mascheroni e Scarone). Ma se Orsi contribuì in modo fondamentale al successo dell’Italia del '38, altrettanti onori raccoglieva in campionato Renato Cesarini, arrivato alla Juve nel 1929. Nato a Senigallia nel 1906 ed emigrato dopo un anno a Buenos Aires, Cesarini giocò sia nella nazionale argentina (a soli 16 anni) che in quella italiana e lasciò dietro di sé molti gol e la famosa “zona Cesarini”. Temperamento tipicamente sudamericano (amava andare in giro con una scimmia sulle spalle), “El pelotazo” Cesarini si distinse anche per la grande abilità nella musica. Musicista provetto, amò i locali da ballo (nonché il fumo, l’alcol e le donne) al pari del pallone e riuscì perfino ad aprire e gestire una sala da ballo a Piazza Castello di Torino. Finita la carriera di calciatore, si distinse anche come allenatore, sia della Juventus che del River Plate, ed il suo nome è stata dato anche a un club professionistico argentino del distretto di Buenos Aires.
Gli astri di Orsi, Guaita, Monti e Cesarini non furono che la punta dell’iceberg del grande movimento di giocatori italoamericani. Dall’Uruguay che già aveva regalato, alla fine dell’Ottocento, una squadra italiana alla storia del calcio (chissà quanti ricordano che il Penarol – tuttora una delle squadre più “medagliate” del pianeta con una settantina tra coppe nazionali e internazionali fu creato da piemontesi emigrati da Pinerolo), giungevano talenti come Raffaele Sansone (nazionale nel 1932) e Francisco Fedullo – che al Bologna consegnarono ben 4 scudetti – i fratelli Frione (Inter), Mascheroni, Porta, Faccio, Faotto, Uslenghi. Dal Brasile, che tra le sue squadre vantava la Palestra Italia di Belo Horizonte, arrivarono invece Anfilogino Guarisi (anche lui campione del mondo del 34), Benedico Zacconi, i fratelli Juan, Octavio e Leonisio Fantoni, Bertini, Serafini, De Maria, Del Debbio, Semagiotto. Dall’Argentina sbarcarono Guillermo Stabile, cannoniere del primo mondiale uruguaiano, Ferrara, Scopelli, Garraffa, Demaria, De Vincenzi, Maglio.
Anche il Paraguay contribuì alla costante crescita della colonia italoamericana sui campi di calcio, regalando al Napoli le stelle Attila (anche lui nazionale nel 1929) e Rafael Sallustro. Molti di essi vennero inghiottiti dalla polvere del tempo lasciando ai soli Orsi, Guaita, Cesarini, Sallustio e Sansone l’onore di un’imperituro ricordo nelle tifoserie cittadine. La pianta della fantasia calcistica americana, tra il 20 e il 30 aveva comunque attecchito sui campi italiani e i talenti “indigeni” stavano crescendo alla grande. Piola, Meazza e Monzeglio avrebbero fatto ben presto dimenticare il sapore sudamericano dell’azzurro e nell’Italia mondiale del 1938 il solo Michele Andreolo mantenne alto l’orgoglio dei figli italiani d’America. Alcuni (Orsi e Guaita su tutti) avevano preferito tornare nei loro paesi di nascita per evitare la chiamata alla guerra d’Abissinia.
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