Ottant’anni fa, nella primavera, appunto, del 1934, si svolse in Italia la seconda edizione della Coppa Rimet (il Mondiale di Calcio) dopo il “Mundial” del 1930 tenutosi in Urugay e culminato a Montevideo con la vittoria degli uruguaiani nella finalissima contro l’Argentina (4 a 2).
L’Italia vinse la Coppa Rimet del 1934. La eco della vittoria risultò assai vasta: risuonò dalle Alpi alla Sicilia, fu accolta con entusiasmo da milioni e milioni di italiani, sebbene, nel 1934 lo sport nazionale italiano fosse il Ciclismo, non il Calcio. Assursero a ruolo di “eroi”, di “semidei” gli Azzurri che nella finale romana giocata allo Stadio del Partito Nazionale Fascista (poi Torino, quindi Flaminio) piegarono per 2 a 1 dopo i supplementari una Cecoslovacchia forse tecnicamente superiore. Col Mondiale del 1934, il Calcio in Italia divenne “chic”: attirò su di sé l’attenzione di rampolli dell’alta borghesia, di piacenti signore già alle prese col “morbo” del Novecento, la noia…
Il Cinema s’era tuttavia già interessato al “football”: nel 1932 Mario Bonnard aveva girato un film destinato a passare alla Storia, Cinque a zero, ispirato difatti al 5 a 0 rifilato nel 1931 dalla Roma alla fortissima Juventus nel ‘catino’ dello stadio di Testaccio.
Ma quella del “radioso” 1934 fu vera gloria? Lo fu davvero? No. Non lo fu, non lo fu nel modo più assoluto. In quella primavera di ottant’anni fa vincemmo un Mondiale che non avremmo meritato di vincere. Il Regime fascista voleva la vittoria, la vittoria finale: non importava in quale modo essa fosse ottenuta. Non sarebbe stato sufficiente nemmeno un secondo posto: contava soltanto vincere, sissignori. Contava soltanto spazzar via chiunque si fosse trovato sulla nostra strada. Ci voleva la vittoria a effetto, la vittoria che consacrasse l’Italia quale potenza calcistica e gettasse la propria luce sull’intera gioventù italiana che praticava sport: atletica, scherma, nuoto, rugby e così via. Un “trionfo” che al mondo intero mostrasse appunto il valore dell’atleta italiano seguito, accudito, tutelato dal Fascismo con tanto di “imprimatur” da parte di Benito Mussolini.
Gli Azzurri portarono a compimento la “missione”. Ma lo fecero lasciandosi diversi “morti” alle spalle: spagnoli, soprattutto spagnoli; e austriaci. I Nazionali italiani scesero in campo a Roma, Firenze, Milano per “non fare prigionieri”…
Non vi sono prove che il Governo Mussolini abbia inciso in modo definitivo sull’esito dei Mondiali del 1934. Del resto, a riguardo, non c’è nero su bianco: non può esservene in circostanze di questo genere. Ma pressioni vi furono. Pressioni accompagnate dall’adulazione, da attenzioni “squisite”… Da un lato l’intimidazione attuata con sorriso gelido, sinistro; dall’altro, appunto, le blandizie, blandizie a non finire. E all’interno della Nazionale guidata dal già celebre Vittorio Pozzo, gelosie sorde, striscianti; conflitti di personalità. Si è favoleggiato assai sullo spirito di corpo che avrebbe unito in un sol blocco gli Azzurri. Ma che dire del già famoso terzino della Juve Virginio Rosetta che dal ritiro di Roveta fece fagotto è saltò sul Direttissimo per Torino non appena venne a sapere che contro l’Austria il suo posto sarebbe stato preso da Eraldo Monzeglio?
Una certa coesione fra i giocatori tuttavia c’era, ma era in gran parte la coesione dettata dalla voglia di picchiare quanto più possibile sul “nemico”, in modo da conservare parecchio a lungo il posto di titolare. Oltretutto, fra numerosi calciatori italiani di allora, l’esclusione dalla prima squadra veniva considerata come un affronto personale…
Il Mondiale 1934 iniziò il 27 maggio, si concluse il 10 giugno. Vi parteciparono sedici squadre: Italia, Argentina, Brasile, Spagna, Francia, Romania, Austria, Cecoslovacchia, Svezia, Svizzera, Ungheria, Stati Uniti, Olanda, Germania, Belgio, Egitto. Si giocò a Roma, Firenze, Bologna, Genova, Torino, Trieste, Napoli. Mancavano i campioni del mondo dell’Uruguay, risentiti nei confronti dell’Italia poiché Roma aveva disertato il Mondiale uruguagio; mancavano l’Inghilterra, la Scozia… Uscite anni prima dalla FIFA sulla spinosa questione della “maximun wage”, cioè del tetto salariale: in Inghilterra la “maximum wage” era fissata sulle cinque sterline a settimana durante la stagione agonistica, su tre nei mesi di inattività estiva. In Italia, Spagna, Francia, Brasile, Argentina non si parlava invece di tetto salariale… Ai Maestri questo non piaceva.
S’iniziò a Roma con Italia-Stati Uniti, 7 a 1 per gli Azzurri. Sull’onda del vistoso successo contro gli statunitensi, l’Italia si ritrovò così al cospetto della granitica Nazionale spagnola nelle cui fila giganteggiavano il portiere Zamora, il terzino Quincoces. Allo stadio Giovanni Berta di Firenze, il 31 maggio, finì a 1 a 1. Furono 90 minuti di caccia all’uomo, da parte azzurra… L’eccelso Zamora venne messo quasi subito fuori combattimento: avrebbe saltato, insieme a sei dei suoi compagni, la ripetizione del quarto di finale in programma il giorno dopo, sempre a Firenze. Non era stato un incontro di Calcio, bensì una “mattanza”… La partita del giorno seguente fu ancora più cruenta; la spuntarono per 1 a 0 (gol di Orsi) gli Azzurri, complice l’arbitro svizzero Mercet che al suo ritorno in patria venne debitamente squalificato dalla propria Federazione. La sua direzione di gara aveva indignato, stomacato gli osservatori della FIFA presenti al Giovanni Berta.
Italia in semifinale, quindi: a Milano, contro l’Austria, il Wunderteam, a 1 a 0, rete di Guaita (contestatissima dagli austriaci) e altre botte solenni sul “nemico”. L’armata italiana” raggiungeva quindi la finalissima, dove si sarebbe appunto misurata con la Cecoslovacchia allo Stadio del PNF. Ma un certo pudore nella circostanza colse i “bucanieri” italiani che s’erano lasciati, sì, numerosi “morti”” alle loro spalle nella marcia trionfale verso la battaglia del 10 giugno. Beh, gli Azzurri pensarono che, contro la quotatissima Cecoslovacchia, si sarebbe dovuto pensare più a giocare a pallone che a ricorrere a gesti da codice penale. Oltretutto, l’attenzione generale sulla finalissima era intensa, era notevole. I Meazza (il “balilla” milanese), gli Schiavio, i Bertolini, i Monzeglio, i Ferrari si misero perciò a giocare a Calcio, gli Azzurri prevalsero per 2 a 1 (gol di Orsi e Schiavio); si strinsero infine intorno alla Coppa Rimet. Alla coppa che non meritavano.
Non fu, no, vera gloria la conquista della Coppa Rimet 1934. Anzi, il comportamento degli italiani nel torneo di ottant’anni fa, rivelò l’esistenza di una certa fragilità interiore e di un certo complesso d’inferiorità nel Giocatore Italiano il quale, tecnicamente non eccelso, ricorreva allora al fallaccio sistematico, assai violento, assai premeditato; convinto com’era che, solo così, avrebbe potuto spuntarla. I fatti di quel 1934 gli dettero “ragione”…
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